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Leone nel basilico di Leone Pompucci: la recensione

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È una Roma straniante e deserta quella di Leone nel basilico. Pompucci crea questo disorientamento percettivo ambientando il suo ultimo film nella capitale ma girandolo tra Bari e Barletta. Il lungomare a San Cataldo, la spiaggia di ponente, un cimitero e una stazione, palazzo Mincuzzi e il mare. Maria Celeste (Ida di Benedetto), vedova di 60 anni ospitata in una casa di cura,  percorre questi luoghi in un enigmatico viaggio della memoria dove lo spazio architettonico assume le caratteristiche di un’astrazione metafisica, confine tra lo stupore e l’incubo che il regista romano riesce a contenere anche in una sola inquadratura individuando il punto in cui la realtà muta in qualcos’altro. È in questa relazione tra figure nel paesaggio e architettura che prende forma un film estraniato rispetto alle convenzioni del racconto perché si delinea nel movimento continuo dei personaggi sempre sulla linea dell’orizzonte, improvvisamente risucchiati da uno spaziotempo altro, come Julietta (Catrinel Marlon) divisa tra la fuga e questo insaziabile desiderio di maternità, uccisa durante una delle sue improvvise derive.

Leone nel basilico ha più di un punto di contatto con l’ultimo film di Giuseppe M. Gaudino. Se la trasformazione non diventa esplicita attraverso l’immagine digitale, con la desaturazione a suggerire l’atmosfera plumbea che attraversa tutto il film, ma anche la scelta marcatamente fotografica di Pompucci, il percorso di Maria Celeste è una ricerca continua della propria identità con questo bambino sempre in braccio e i personaggi in corsa dal suo percorso randagio.

Persino la struttura apparentemente fiabesca della narrazione, con l’incipit che vede le due vecchiette della casa di cura introdurre la storia di Maria Celeste non serve a saldare il racconto sulla linea dello sviluppo, tanto è fatto di continui arresti e ripartenze oppure squarci onirici senza la definizione calligrafica del sogno, basta pensare all’immagine ripetuta dell’elefante, un identico frammento che oltre alla rilevanza mnestica, assume una funzione ritmica misteriosa senza mai imboccare la scorciatoia allegorica.

Ma nel percorso di Maria Celeste, lo spazio, la linea del lungomare, il deserto della stazione pugliese, la vista dal terrazzo dove vive il figlio con la moglie (una delirante Carla Signoris) svuotano l’occhio in contrasto agli ambienti chiusi dove sono sedimentati i relitti di una memoria senza più corpi. È una frizione che Pompucci ricerca continuamente ma in modo del tutto naturale, cogliendo spesso tutta la storia di un personaggio in brevissimi e fulminanti frammenti: carla Signoris sullo scivolo ad acqua colta in quel sorriso accennato che la separa dalla realtà, poco prima dell’ultimo lancio, Mariano Rigillo che cura la memoria dei morti, Maria Celeste e le sue vecchie amiche circondate dai cazzi e dai gadget estremi di un sexy shop.

Nella surrealtà della realtà, quando Maria Celeste cerca le immagini di una vita precedente, si imbatte nella scopata tra l’agente immobiliare e la sua amante, una delle tante epifanie che erompono nel presente come se fossero continui rispecchiamenti, vedersi improvvisamente visti, abissi sulla propria storia.

Ida di Benedetto incarna perfettamente il nomadismo di Maria Celeste, non è solo il suo incedere che attraversa lo spazio e il tempo, ma il volto trasfigurato dal trucco nella coesistenza tra fissità e dolore, ghigno e pianto, orgoglio e dolore.

Molto più vicino al cinema di Citti e al Bertolucci de “I cammelli” che ai fellinismi di Sorrentino, Leone nel Basilico è un film strabordante e onesto, gravido di spaccature e bellissime incertezze del digitale, mai alla ricerca di quella perfezione formale che congela certo cinema italiano in una dimensione asettica e inerte, non importa da quale lato della realtà.