Capolavoro di Marcel Carné, Les Enfants du Paradis è “ uno dei più importanti film che siano mai stati girati al mondo negli ultimi dieci anni”, proclamava George Sadoul alla sua comparsa nel ’45, “E’ il miglior film nella storia del cinema sonoro francese”, dissero tutti nel ‘71 alla cerimonia dei César, “E’ il film più bello della nostra cinematografia”, sostenevano ancora i francesi all’inizio degli anni Novanta. E non c’è ragione di cambiar giudizio neppure oggi, vedendolo nelle sale in versione integrale dopo il restauro promosso nel 2011 da Pathé e realizzato dal laboratorio L’Immagine Ritrovata di Bologna e dai Laboratoires Éclair di Parigi.
Con la sua genesi travagliata da continue interruzioni per guerra, persecuzione razziale di alcuni membri dello staff, perfino un’alluvione sul set durante le riprese a Nizza, Les Enfants du Paradis è un film leggendario, un pezzo vivente della storia d’Europa, testimonianza di un amore per il cinema che supera ogni barriera e sfida gloriosamente tempi e mode. Coronamento del lungo sodalizio di Carné con Prévert alla sceneggiatura e ai dialoghi (già sette film insieme), costato alla produzione più di ogni altro film fino ad allora realizzato per tutti gli incidenti di percorso, é una visione fluviale di oltre tre ore, diviso in due parti (Boulevard du Crime e L’Homme blanc) che il regista auspicava fossero proiettate in un’unica visione. Oggi il suo desiderio si é realizzato, ma nel’45, a Parigi, le serate furono sempre due.
Era il tempo della pace in una Francia finalmente sgombra dai nazisti. Recuperate le poche copie salvate, ben nascoste nel caveau di alcune banche e nella cantina di una villa in Provenza, il film segnava il ritorno del Paese alla luce, quella “piccola luce” che, dice Garance (Arletty), protagonista femminile, si accende negli occhi di chi ama. Per la Francia fu anche un riprendere contatto con la propria storia, tornare ad esibire gioielli di famiglia gelosamente custoditi, recuperare le radici di una tradizione che, fra teatro e letteratura, vantava padri celebri. Il mondo che Carné e Prévert mettono in scena é infatti quello di brulicante umanità di Balzac, Sue e Hugo, una comédie humaine che vibrava nelle pagine del grande romanzo ottocentesco francese e sembrava aspettare che il cinema le prestasse il suo linguaggio, appena ciò fosse stato possibile. E c’era anche una generazione illustre di uomini e artisti che premeva per non essere dimenticata, da Baptiste Debureau, il più grande mimo della storia francese, a Frédérick Lemaître, un attore che si guadagnò, in vita, l’elogio funebre, in morte, di Victor Hugo, fino al bandito-poeta Lacenaire, figura affascinante di romantico fuorilegge, finito sulla ghigliottina nel 1836 e già ispiratore di Stendhal e Baudelaire.
Esisteva, infine, una tradizione, antica ma rinvigorita nel dopo rivoluzione dalla grande diffusione popolare, che faceva del teatro un medium potente di cultura, linguaggi e idee. Dai grandi nomi del teatro classico a tutte le forme di spettacolo che affollavano piazze e strade, con baracconi, carri di Tespi ambulanti, mimi, pantomimi, giocolieri e acrobati, la grande fabbrica del teatro attirava le folle, gremiva le platee di ricchi borghesi e i loggioni di quei rumorosi ed entusiasti enfants du Paradis da sempre croce e delizia di attori e autori. Non restava allora che appropriarsi delle nuove tecnologie, quelle del cinema, e adattarsi al nuovo linguaggio, e questo immenso patrimonio sarebbe stato consegnato al futuro. La coppia Carné/Prévert riuscì in questa impresa, ricucì lo iato fra due mondi solo apparentemente distanti e diede loro continuità trasferendone l’eredità al nostro presente. “Realismo poetico” fu la formula coniata per definire questo straordinario impasto linguistico e visivo che, fra senso della narrazione, perfezione formale e bravura degli attori, stabilì una rara sinergia fondata sul tema della interscambiabilità tra teatro e realtà. (continua nella pagina successiva…)