giovedì, Novembre 21, 2024

Les Nuits Fauves di Cyril Collard – Berlinale 69 – Panorama 40: la recensione

Nel marzo del 1993 Cyril Collard, musicista, videomaker, e ancora scrittore, attore, regista francese, muore di Aids; solo pochi giorni dopo, il suo primo e unico lungometraggio “Les nuits fauves” (Notti Selvagge) vince, tra gli altri premi, quello César al miglior film.

Ben al di là di ogni triste sensazionalismo, non si può prescindere dal considerarlo se si vuol parlare di questo lampo di cinema, che, pur autonomo sullo schermo, nasce come urgente emissione della vita vissuta e nella vita dell’autore e dell’opera oltre lo schermo trova il suo ovvio compimento e la sua più onesta significazione.

Alla fine degli anni ’80, quando l’HIV era più che mai uno spettro da demonizzare piuttosto che un virus da cui difendersi, Collard fu un pioniere, parlò senza alcun tipo di autocensura della propria sieropositivà e bisessualità, si espose tutto, anche nelle scelte criticabili, nelle abitudini moralmente considerate abiette, per portare alla luce la sua verità di uomo, di uomo in quanto malato e viceversa, esorcizzando così ogni possibile pietismo, di malato in quanto uomo, sotto ogni profilo corruttibile.

L’impellenza di concedersi voce ha forse una determinazione astrale (“è del Sagittario questa frenesia di visitare più posti possibili, di volersi trovare in un posto sempre diverso da quello in cui ci si trova”), certo Collard la asseconda scivolando attraverso le forme, costruendo per sé l’immagine autobiografica di Jean, trasportando la vita nel romanzo e il romanzo nel film, appunto Les nuits fauves, che fagocita l’omonimo testo da cui è tratto per produrne uno assoluto e cinematografico, ingloba la parola scritta nella misura di una voice-over tanto primitiva quanto proprio per questo pura e toccante, non senza inventiva e freschezza compositiva.

Agito da un ordine naturale cui si appella in modo palese (“tutto nasce dalla terra e tutto torna alla terra”) o da cui è soccorso per illuminazioni (“che cos’è un ribelle? un tipo segnato dal destino”), Jean, intrepretato da Collard che dirige se stesso – nessun altro attore fu infatti disposto a “macchiare” con questo film il suo curriculum – in un gioco di specchi tra copia conforme e originale, rifiuta lo stigma della malattia elevando all’ennesima la propria capacità di sentire, tra moltiplicati incontri notturni, abusi di sostanze e sfrenate corse in macchina. A tutto volume, non solo la musica, mentre cerca intanto e per la prima volta di riservarsi il tentativo di amare, Laura e Samy insieme.

All’atmosfera mistica che apre il film in uno squarcio di rivelazione e al contempo di segreto, alimentata dal folklore marocchino e dalla camera a mano ugualmente disorientanti e epifanici – della malattia, delle implicazioni a essa connessa, come anche di un disegno altro, segue proprio un gioco di binari paralleli, intorno alla ragazza e al ragazzo, che si alternano mandando in cortocircuito una narrazione lineare in favore dell’episodico, dell’ellittico, salvo poi congiungersi facendo confluire i piani in un ménage à trois: a fronte di una stabilita coerenza spazio-temporale, a saltare è allora ogni parvenza di “normalità”.

Samy è la figurazione dello stadio pregresso di Jean, invischiato nella sua stessa melma urbana – la città è Parigi – e umana, per – azzardata? – metonimia affine ai naziskin in quanto appagato da pratiche sadomaso; Laura è la seduzione dell’ignoto e dell’inganno, che si rovescia nella recita di un rapporto univoco e totalizzante, laddove il fondo disvela solamente sentimenti equivoci, per quanto inebrianti.

Solo passando da un potenziamento pericoloso e infine anestetizzante, Jean/Collard può aprire gli occhi al senso, solo riconoscendosi impossibilitato ad amare può finalmente percorrere la direttrice suggerita dall’incipit del film: “forse morirò di Aids, ma quella non sarà la mia vita, sono vivo”, ancora una volta lontano dall’Europa, in Brasile, con il paradosso della speranza dentro a uno sguardo annegato nel tramonto, alle spalle il Cristo Redentore.

La sincerità disinibita di “Les nuits fauves” ha di nuovo modo di pronunciarsi alla Berlinale 69, in quel di Panorama 40, celebrazione della sezione collaterale che ha sempre dato voce, tra le altre cose, al dibattito sulla malattia, facendo della presa di coscienza una scommessa culturale, senza dubbio di concerto con l’esperimento cinematografico di Collard.

Veronica Canalini
Veronica Canalini
Critica Cinematografica iscritta al SNCCI. Si anche classificata al secondo posto al concorso di critica cinematografica “Genere femminile: quando le donne criticano il cinema” indetto da Artemedia, oltre a scrivere di Cinema per Indie-eye, si è occupata di critica letteraria per il Corriere del Conero.

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