Un senzatetto raduna i propri averi tra i passanti di via Dante, nel centro di Milano. Alle sue spalle campeggia un’insegna pubblicitaria di Expo 2015, con tutta la sua portata di polemiche e astratte intenzioni di “nutrire il pianeta”. Si apre in questo modo Let’s Go di Antonietta De Lillo: con un’inquadratura fissa, muta e lapidaria, che prepara il terreno su cui si muoverà il documentario sintetizzando con sorprendente efficacia l’abisso sul crinale del quale cammina la società italiana insieme a tutte le altre facenti parte del cosidetto mondo occidentale. Nello squarcio di quell’abisso è precipitato il protagonista del film, Luca Musella, fotoreporter, scrittore, piccolo imprenditore, che da stimato e benestante “Uomo del Mulino Bianco”, come lui stesso definisce la sua incarnazione passata, è precipitato nel giro di pochi anni lungo la sempre più ripida scala sociale fino al ruolo di sottoproletario che vive di espedienti.
Si tratta di una storia-limite, una vicenda umana che chiama in causa direttamente lo spettatore e le contraddizioni che lo circondano, avvicinando al nostro sguardo i margini della società attraverso un personaggio che per gli egemoni canoni di pensiero non dovrebbe farne parte. Lo stesso accadeva nel precedente La Pazza della Porta Accanto, che raccontava il quotidiano e il pensiero di Alda Merini, poetessa e pensatrice acclamata e allo stesso tempo malata psichiatrica e indigente. Una traiettoria precisa, quindi, tesa tra i due lavori: il racconto concreto di personaggi che sulla carta incarnano un paradosso ma che una volta visti da vicino mettono a nudo e in ridicolo le etichette sociali che li e ci definiscono.
Lo spazio visivo è ancora una volta quello del Naviglio Martesana e dei suoi dintorni a un tempo decadenti e affascinanti, familiari e multietnici. La De Lillo lascia che a “scrivere” il film sia il suo protagonista, usando come spina dorsale del racconto l’intervista a Musella e alcune lettere in cui racconta gli aneddoti del suo privato, recitate da una voce off. Per accompagnare questa traccia sonora, la regista realizza e seleziona immagini che risultano “parlanti” sotto diverse accezioni: da qui la ricerca del tratto grafico nell’immagine urbana, la predilezione per graffiti di contestazione e insegne che gridino con chiarezza la voce di questi angoli di Milano; allo stesso modo le immagini del vagabondare di Musella per la città lo vedono sempre costretto e soffocato dalle inquadrature, schiacciato contro i finestrini di un treno, confinato da corridoi, bancarelle, ringhiere, scrivanie. Lo stesso motivo ricorrente si fa astratto nelle riprese dell’intervista, in cui il protagonista viene sezionato e rinchiuso dal ritornello visivo di ingombranti mascherini verticali e orizzontali.
Dal proprio racconto, il protagonista emerge come un uomo che, nel tumulto della crisi, ha conservato la propria identità mettendola maggiormente a fuoco nel nuovo contesto: ancora scrittore nel tempo libero, ancora fotografo (ma senza un settore di mercato che gli dia da vivere), ancora paradossalmente piccolo imprenditore (dai Caffè-Libreria alle bancarelle rionali dove rivende ciò che trova), Musella rispetto alla vita precedente ha finito per tagliare i ponti esclusivamente con la propria famiglia, costruita su valori suggeriti da una società in cui non si rispecchia più. Trasferitosi a Milano, ha rimodulato il suo concetto di famiglia attorno ad un microcosmo di esuli con cui condivide la propria particellare marginalità: immigrati e immigrate da Egitto, Romania, Brasile, ognuno con un’altra vita e un’altra famiglia alle spalle, alle quali però hanno desiderio di tornare. Le barriere che li imprigionano non sono rese visibili nella curatissima composizione dell’immagine, come nel caso di Musella, ma si materializzano nelle loro voci sotto forma di insormontabili vincoli burocratici e ricatti lavorativi.
Al secondo lavoro Antonietta De Lillo conferma di saper governare con mano sicura e grande sensibilità gli strumenti di un cinema che prende forma attorno ai propri soggetti, lasciando che siano loro a modellare il documentario e non viceversa.