Secondo Mark Fisher ne “La Cosa” di John Carpenter si trova una perfetta messa in scena del mostruoso processo metabolico del capitalismo: il Capitale – inteso soprattutto nell’accezione di Deleuze e Guattari di “impasto di tutto quanto venuto prima” – sarebbe del tutto simile al mostro protagonista del film, “un’entità plastica e infinita capace di metabolizzare e assorbire qualsiasi oggetto con cui entra in contatto”. In effetti è difficile immaginare qualcosa di più spaventoso di un essere che vuole solo crescere a dismisura: qualcosa che non è fertile, ma vuole sempre più vita e non conosce deperimento, una forza affermativa, impositiva e del tutto sregolata, in grado di aggrapparsi alla vita e stortare a propria immagine la carne della realtà.
Sembra pensarlo anche Jessica Hausner nel suo “Little Joe”, storia di un fiore rosso costruito artificialmente per produrre ossitocina in chi inala il suo polline. Anche se non è un fiore dall’aspetto particolarmente mostruoso, come una gigantesca pianta carnivora con dentoni aguzzi, strane bolle velenose o molesti tentacoli avviluppanti, Little Joe è inquietante perché pur non essendo fertile ha una volontà precisa, la volontà di crescere e sopravvivere – la stessa del mostro de “La Cosa” e la stessa del Capitale.
L’associazione, l’allineamento metaforico, tra il fiore e il Capitale è l’elemento centrale di “Little Joe” e rende il film di Jessica Hausner un film-concetto concentrato in un solo punto, un horror fatto di situazioni sempre ambigue dedicato a indagare di rimbalzo, in controluce – con pratiche segniche solo suggestive, che non determinano nulla né dalla parte della letteralità né dalla parte della metafora – le dinamiche del capitalismo nelle psicologie degli individui, e in particolare delle madri. A differenza de “La Cosa” di Carpenter, il Capitalismo letto nella filigrana contorta della mostruosità non è più l’impasto multiforme e liquido, non è una forza esterna in grado di applicare la propria legge all’interno per dissimulazione; è già l’interno, è già all’interno, è l’orizzonte mentale costituito dalla convinzione di un’irreversibilità, è quella condizione di “realismo capitalista” sempre descritta da Fisher, l’idea che il reale e la realtà ideologicamente mediata del Capitale coincidano e non ci sia alternativa possibile per l’esistenza socioeconomica. Il segno horror scritto da Hausner è infatti diverso da quello di Carpenter, agisce su un terreno psicologico e non fisico e per questo non lascia sullo schermo, sulla pellicola dei corpi, tracce visibili, solo sfumature.
In “Little Joe” le spore del fiore producono felicità in chi le inspira e spingono a proteggere il fiore spontaneamente. Chi pensa che qualcosa non vada, che chi inspira le spore sia diverso e violento, viene tacciato di stupidità e incomprensione o di follia: un personaggio con pregressi problemi psicologici che intuisce la pericolosità del fiore viene marginalizzato e colpevolizzato proprio per quei problemi individuali. La delegittimazione dei problemi psicologici, descritti come risultato di colpe individuali invece che prodotti da problemi sistemici legati alla società, è una specifica dinamica della società del Capitale. Allo stesso modo la sensazione di felicità e di dolce indifferenza nei confronti della vita prodotta dalle spore rimanda alla consapevole resa nei confronti di una situazione apparentemente invalicabile, allo stato di accettazione sorridente del progressivo inasprimento di tutte le condizioni. Il terrore provocato dal fiore è invisibile, è un brivido compreso nella parentesi mentale di individui che lentamente non combattono più e si cullano nella facile esaltazione, nella cura dell’oggetto del desiderio. Il Capitale non si trova più nel mostro de “La Cosa”, non è più una minaccia visibile alla fine del mondo: è coltivata in casa, ha un bel colore, ha bisogno di parole di conforto. È un fiore accarezzabile che vuole solo amore.