Protagonisti di eventi che introducono lo scarto, la svolta imprevista, nel corso regolare dei giorni e dentro gli spazi anonimi di vite comuni, i personaggi di Kore-eda si fermano sempre prima di trasformarsi in simboli. Bambini o adulti, uomini o donne colpiti da un profondo cambiamento che li costringe ad uscire dal perimetro della propria persona, come accade nel precedente Father and Son e a rimettersi in gioco con prospettive diverse, non diventano mai modelli esemplari, paradigmi di comportamento, vite trascese dai mondi ideali dell’arte.
Tra sè e loro Kore-eda pone la distanza necessaria per evitare che il dinamismo sfuggente della realtà si cristallizzi e i reticoli che la vita quotidiana tesse senza posa all’insegna del caos, della casualità e della ripetitività vengano alterati.
Il suo è un rovesciamento dello sguardo, un punto di vista dal basso che fa delle semplici trame del mondo il terreno di elezione per quel bisogno di ritrovare sè stessi nei gesti ripetitivi e insignificanti della vita, nelle parole e nei silenzi di tutti i giorni.
In quest’ottica, “non c’è nulla che puoi vedere che non sia un fiore; non c’è nulla che puoi pensare che non sia la luna” scriveva Basho, e non c’è nulla nel teatro mentale di Kore-eda che non sia reale e irreale insieme.
Wandafuru Raifu (After Life, 1998) elaborò una fantasia complessa, in cui le dimensioni fisica e metafisica del vivere si sovrapposero fino a rendere impossibile la percezione del loro confine. Maboroshi no ikari, 1995, fu lo strappo assurdo nella vita di Yumiko, dopo l’enigmatica morte del marito, e la realtà si restrinse attorno a quel “ perché? ” fino a quando il suo satoru, la “grande comprensione”, l’intuizione svelante del reale come nulla di senso, la portò al “grande risveglio”, che altro non era se non la capacità di convivere con il resto del mondo.
I quattro piccoli fratelli perduti nella giungla metropolitana di Nobody knows (Daremo Shiranai, 2004) non erano meno veri dei miseri bambini in prime di cronaca trovati abbandonati da mesi in un anonimo condominio nella Tokyo del 1988.
E ancora Nozomi, la bambola gonfiabile di Air Doll (Kuki Ningyo, 2009), animata da un vero e proprio pneuma vitale che la porterà a fare esperienza del mondo nella sua ambivalenza
Attento più ai soggetti anonimi di cui una comunità si compone che all’individuo come entità unica e irripetibile, Kore-eda introduce in quello spazio amorfo che la filosofia rimuove in quanto insignificante, una psicopatologia della vita quotidiana che attinge al fluire reale delle cose.
In un mondo in cui casualità e ripetizione dominano incontrastati e disegnano una rete di rapporti che possono anche sconfinare nell’irreale e nella favola, le sue storie non diventano mai apologo morale, racconto di edificazione, exemplum.
Il cinema di Kore-eda è pensiero che si plasma in figura e parla da una dimensione altra, attraverso i mezzi della pura intuizione che è “… scoperta della vera natura delle cose e fondamenta dell’anima (potremmo dire gli archetipi del sé), in contrapposizione con i metodi estremamente razionali degli psicoanalisti.”(Yong-Kyun Bae per Milestone Film & Video Release).
Le tre sorelle del film, storia liberamente tratta dal manga di Yoshida Akimi, sono l’ultima incursione di Kore-eda nel mondo delle famiglie disfunzionali e degli affetti mancati. Il legame profondo che le unisce e la sorridente dolcezza del loro vivere insieme le rendono uniche, affrancandole da ogni dipendenza da mondi poetici con cui il confronto verrebbe spontaneo, Čechov e Ozu, in primis, nonché Piccole donne di Alcott.
Sachi (Haruka Ayase), Yoshino (Masami Nagasawa) e Chika (Kaho), a cui si unirà ben presto Suzu (Suzu Hirose), la sorellina di tredici anni, timida e malinconica, che il padre ha avuto dalla donna che “ha distrutto la loro famiglia” (come dice l’anziana zia, onnipresente in ogni famiglia che si rispetti a distribuire pillole di popolana saggezza) sono giovani donne fra i venti e i trent’anni, ognuna con la sua personalità, amori e fallimenti, pieni e vuoti, allegria e cedimenti. Sono donne lineari e dirette, che Kore-eda tratteggia a piccoli tocchi e colori pastello con la sua straordinaria capacità di far affiorare il rimosso solo il tanto che basta, quindi stop and go, la vita continua e le lacrime possono anche tornare indietro, i fiori di ciliegio torneranno sempre a spuntare e il liquore di prugne fatto in casa sarà sempre delizioso.
C’è il Giappone contemporaneo nel suo cinema, è il centro da cui partono traiettorie ancorate ad un presente ben definito (interni ed esterni, condizioni climatiche, dinamiche interpersonali) ma i suoi personaggi si collocano dentro strutture rarefatte, spesso mutuate da graphic novel, come Nozomi, l’effimera, una Kuki Ningyo, figurina esile come lo stelo di un fiore che contiene in sè la più grande saggezza del mondo:
Sembra che la vita sia fatta da non poterla portare avanti da soli, proprio come per i fiori non è sufficiente avere pistilli e stami, un insetto o la brezza devono inserire un pistillo in uno stame.
E’ la concezione della vita che leggiamo in tutti i film di Kore-eda, in cui tradizione e innovazione si fondono, i riti del lutto e la gioia del cibo consumato in comune, kimono floreali e tailleurini neri occidentali indossati da piccole donne in carriera convivono in simbiosi. Superba, dolcissima, amara ambivalenza di un grande cinema, dai suoni della natura allo stridere dei rumori urbani, dagli accordi di una chitarra classica ai fraseggi di un pianoforte, dallo xilofono al carillon, Kore-eda sa che ogni suono può arrivare al momento giusto solo che “So Kokoro, sì, un cuore”, come sussurra Nozomi a Mastro Geppetto, solo che ci sia un cuore disposto ad ascoltare.
Un sorriso luminoso e la capacità di dire parole semplici, ma quelle giuste per lasciarsi alle spalle le negatività della vita, sono la risorsa migliore di Sachi, Yoshino e Chika, e lo diventeranno anche per la malinconica Suzo, che accolgono fra loro come lo strumento che mancava al piccolo ensemble. Cresciute dopo il divorzio dei genitori a Kamakura, tranquilla cittadina balneare della prefettura di Kanagawa, 50 km a sud di Tokyo, nella vecchia casa con giardino un po’ in disarmo della nonna, Sachi lavora in ospedale come infermiera, Yoshino sta facendo carriera in banca e Chika, la più giovane e sportiva, è la mattacchiona del gruppo, sempre allegra nei suoi buffi vestiti.
Continuare a vivere insieme per loro è una specie di condizione naturale, anche ora che la nonna è morta.
La madre, riapparsa in un breve ritorno dopo un’assenza di anni, è una figura dolente, la sua fuga ad Okkaido, all’estremo nord del Giappone, era stata un voler chiudere del tutto il capitolo troppo doloroso del suo matrimonio. Ora l’amore reciproco madre/figlie è intatto, ma come disancorato, sono su binari paralleli. Il padre, mai più visto per quindici anni, è morto da poco e il suo funerale è il momento chiave, incipit del film e del diario che seguirà per quattro stagioni le quattro sorelle.
Suzo le aspetta nella stazione del paesino in cui viveva col padre, la madre le è mancata molto presto. Non ha mai conosciuto queste sorelle lontane, ma dirsi “viviamo insieme” sarà la cosa più naturale del mondo, come il convergere di gocce su un piano inclinato.
Sulla spiaggia solitaria dell’ultima scena le quattro sorelle camminano scherzando, corrono un po’ sul bagnasciuga schivando la schiuma che le lambisce, si allontanano in controluce nei loro tailleurini neri, sembrano le figurine stilizzate di Giacometti.
Tornano dal funerale della cara signora della trattoria, quella che preparava fritti deliziosi di pesce e sorrideva sempre, come loro, anche quando aveva detto ai clienti che chiudeva il locale, ormai la malattia era arrivata allo stadio terminale.