Intonaci fatiscenti, occhi persi tra sogni e paure; crepe sulla parete, sospiri, sorrisi trattenuti.
A Sofía Gómez-Córdova bastano pochi secondi per dare al suo “Los años azules” una direzione, caricarlo di senso attraverso una sequenza di dettagli minimi che del film contengono già i toni cromatici e narrativi, ne suggeriscono lo sviluppo lasciandone intravedere circolarmente l’epilogo.
La transizione all’età adulta, dramma risaputo, declinato più e più volte, non riserva colpi di scena; il coraggio di Gómez-Córdova sta nel variare sul tema costruendo un racconto polifonico spogliato di ogni eccesso, capace di intercettare il cuore vero e ribattente delle cose, rivestendole allo stesso tempo di un surplus che non è mai superfluo. Lo sguardo sopraelevato del gatto Schrödinger garantisce infatti la coesistenza nel film di due dimensioni, l’apparato simbolico integrato allo stile quasi documentaristico, in un’originale, sinuosa armonia complessiva.
Guadalajara, Messico: una vecchia casa che cade in frantumi, a dividerla quattro coinquilini più una, Diana, nuova ospite inattesa, detonatore emotivo nelle vite degli altri. Dirompe fulminea l’esuberanza di un corpo estraneo non giudicante, da alcuni subito empaticamente accolto, da altri sondato dalla distanza, messo in discussione, infine compreso. Diana che ha ventisette anni e alle spalle una serie di strade imboccate a tentoni, sempre sbagliando; l’entusiasmo di ricominciare daccapo ancora una volta e chissà quante altre, la capacità di vedere la bellezza in una cameretta grigia, sporca, un sostegno nel mezzo che ne regga il tetto pericolante.
E’ un degrado che sembra confliggere con le pulsioni di chi vuole abitarla, si scopre non essere altro che la messa in superficie di una fragilità più intima. Mentre le pareti si colorano fino a diventare irriconoscibili, le crepe interiori vengono a galla. Diana disegna sui muri e intanto piange, regala passioni senza riuscire a incanalare le proprie.
E’ l’amata odiata casa il codice di lettura, Gómez-Córdova ne trasmette tutta la forza magnetica e fa del rapporto casa/inquilini la via d’accesso verso la comprensione delle personali crisi di ognuno di essi, tutti a condividere una fase di passaggio – che poi vivere non è altro che questo e di diventare adulti non si finisce mai – specchiandosi occhi negli occhi attraverso la sincerità di facciate e tramezzi.
Accanto a Diana ci sono Jaime e Silvia, che non si piacciono pur, o proprio perché, simili nel colmare i vuoti allungando la lista degli amanti, e se lo dicono senza filtri, con autentica compassione reciproca; e ancora Andrés e Angélica, che si accorgono l’uno dell’altra con invece la paura di saperlo, che si piacciono.
In un gioco di corrispondenze interne, e di interni, la giovane regista messicana, già premiata al Festival Internacional de Cine en Guadalajara, ci parla di quanto è umano voler essere, a volte, attori non protagonisti delle proprie vite per perdersi nella periferia di quelle degli altri. Si scorge dai tetti, si sente salire dalla strada il fascino decadente della città di cui i cinque protagonisti sono il prodotto, ma le loro storie affondano le radici in un senso di precarietà che va al di là di ogni provenienza.
Sono gli anni blu. Blu come il manto di Schrödinger, custode imperscrutabile, l’unico che si accorgerà del tetto che cade prima che sia allora davvero troppo tardi.