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Los versos del olvido di Alireza Khatami – #Venezia74 – Orizzonti: recensione

Alireza Khatami, iraniano classe 1980, gioca al realismo magico nel suo film presentato in concorso a Venezia nella sezione Orizzonti: Los versos del olvido è la storia di un vecchio signore barbuto, di nome Juan, dalla prodigiosa memoria – se non per i nomi che proprio non riesce a ricordare, forma di inconscia insubordinazione alla classificazione spiccia e definitiva – che lavora sette giorni su sette in un obitorio dimenticato da Dio in qualche luogo imprecisato dell’America Latina.

La sua ossessione è dare ai cadaveri non solo sepoltura, ma anche una storia, un’identità: se, parafrasando Seneca, solo la morte dà senso alla vita, per il protagonista del film, restituire la fine, chiudere il cerchio, contemplare la tessitura compiuta è un imperativo morale e una battaglia personale contro l’oblio e la colpa di dimenticare.

Quando, poi, la Storia squarcia la routine della sua quieta esistenza e un corpo di polizia nasconde nelle celle frigorifere dell’obitorio i cadaveri di alcuni dissidenti, tra cui quello di una giovane donna, per l’anziano becchino la vocazione professionale diviene missione esistenziale, febbrile ricerca di senso e di giustizia.

Vicenda archetipica che affonda le radici nella battaglia contro tutti di Antigone – scontro tra le ragioni del sangue e le ragioni della legge e, insieme, delle ragioni della dignità contro quelle dell’amministrazione – e che, ben più vicino nel tempo, ricorda, pur vagamente, la corsa febbrile del padre elettivo di Lazslo Nemes nel premiatissimo Il figlio di Saul, Los versos del olvido assume un suo significato più circoscritto solo nel contesto delle dittature latinoamericane e della loro disinvolta pulizia degli avversari di regime.

L’eco è alla pagina nera dei desaparecidos, macchia di prodigiosa disumanità. Il film di Khatami s’accosta, però, a una materia così dolorosa, amara e politicamente problematica nel modo più freddo e trasognato possibile, senza affondare la lama nella carne putrefatta della Storia e con un velleitarismo pseudo-autoriale che scimmiotta Larraín e sfilaccia il tessuto di un’opera in fondo priva di sostanza immaginativa e rigore storico che gli inserti visionari, per quanto colti e suggestivi, non riescono proprio a nobilitare.

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