if you can see the front and back, it means that you, the viewer, are in the picture…(you) are not a voyeur looking from a distance…(you’re) participator (David Hockney) (David Hockney, Hockney on photography: conversations with paul Joyce, NY, Harmony Books, 1998)
[Questo articolo è stato originariamente pubblicato su Daemon Magazine libri e culture artistiche, la rivista cartacea pubblicata a partire dal 2000 a Bologna, ideata e diretta da Franco Baldasso]
La prima sequenza di Tokyo Biyori il film di Naoto Takenaka sviluppato come un complesso flashback nidificato intorno al Sentimental Journey di Araki Nobuyoshi e di sua moglie Yoko, registra la difficoltà del fotografo Giapponese nel tentativo di catturare l’immagine di un’immagine. Il set è una riproduzione “infedele”degli spazi familiari realizzati da Araki dopo la morte di Yoko e congelati insieme al desiderio degli oggetti per una presenza corporea assente; nel giardino di casa è ben visibile l’attrezzatura fotografica e una foto di Yoko scattata durante la loro seconda luna di miele appoggiata su un tavolo; Araki cerca di prenderne un’istantanea, ma si arresta. Un gesto in apparente contrasto con l’attitudine ipertrofica di scattare ottanta rullini in due giorni, testimoniata in alcune interviste (Nobuyoshi Araki, Larry Clark, Cuerpos, Memorias fotografias, Valencia, Sala Parpallo 1994) come atto del guardare <senza pensare>, o come una sorta di selvaggia e incontrollabile “forza eiaculatrice dell’occhio” (Robert Bresson, Note sul cinematografo, Venezia, Marsilio 1986) .
Il rapporto con le superfici è un aspetto complesso nela fotografia di Araki, e in qualche modo diventa motivo di confronto molto preciso con alcuni fotografi a lui contemporanei come Kishin Shinoyama, interessati in primo luogo a costruire un evento performativo che non oltrepassi la soglia di rappresentazione del corpo. E’ in questa prospettiva che l’interpretazione di Naoto Takenaka assume una consistenza quasi flagrante, è “osceno e impossibile per Araki fotografare l’immagine della morte perchè è come mettere in scena un atto mistificatorio che non permette di andare oltre la superficie stessa dell’immagine; l’unica pratica possibile è quella di portare se stessi all’interno dell’evento, in modo da poter consentire la riproduzione <dello spazio e del tempo tra chi fotografa e chi è fotografato> (Nobuyoshi Araki, Larry Clark, Cuerpos, Memorias fotografias, Valencia, Sala Parpallo 1994) . Si tratta sempre di una metodologia di osservazione della superficie, ma allo scopo di approdare a qualcosa di diverso che proceda verso la sconnessione della dialettica tra oggetto/soggetto.
Il pensiero di David Hockney sulla fotografia è utile ad approfondire questo aspetto anche in funzione delle differenze di approccio al mezzo fotografico rispetto all’occhio di Araki Nobuyoshi. Hockney nel suo percorso fotografico tutto sommato circoscritto, considera l’immagine fotografica un mezzo per sperimentare alcune idee sulla percezione come corollario e supporto teorico al suo lavoro di pittore; è spaventato dalla prospettiva mono-oculare del “frame” inteso come limite dello sguardo in rapporto alla libertà di innescare le possibilità di una visione periferica, tipica della pittura. Per questo motivo comincia ad interessarsi ai difetti della percezione cromatica delle fotografie sovraesposte, ai riflessi acquatici e alle increspature come segnali di un’immagine nel suo farsi, e soprattutto alla sovrapposizione dei punti di vista. Quando Hockney alla fine del 1976 prepara nel suo studio il ritratto dei genitori prende una serie di fotografie durante le sedute di posa, in modo da includere nell’immagine un soggetto raddoppiato dalla presenza del quadro in lavorazione sempre visibile nell’inquadratura; ed “è certamente molto difficile ritrarre i propri genitori, perchè mentre studi loro, nel frattempo studi te stesso. Praticamente nel ritratto ci sono tre persone”. (David Hockney, David Hockney Fotografo, Firenze, Alinari, 1983)
Il pensiero fotografico di Araki ci sembra un’estrema conseguenza della ricerca hockneyana dell’interstizio entro cui oggetto e soggetto collidono. Lo sguardo del fotografo giapponese non può essere inteso in modo superficialmente Voyeuristico, contrariamente ad alcune diffuse interpretazioni (Nobuyoshi Araki, Conversazione con Kerstin Engholm e Maren Lubbke, traduzione dal tedesco di Tiziana Conti, in “terra celeste: periodico di arte contemporanea”, a. 17, n. 67. mar-apr. 1998, pp 45-49) . E non si tratta solamente di identificare un superamento di questa autorità dello sguardo in alcuni scatti esplicitamente meta-fotografici,capaci comunque di andare oltre la superficie pornografica troppo spesso ancorata ad una strategia di amplificazione del dettaglio, tratto estremo della soggettiva “classica” ideologicamente codificata, almeno secondo un approccio mutuato dagli studi di Laura Mulvey sul genere (Laura Mulvey, Visual Pleasure and narrative Cinema, in Screen, 16.3 Autumn 1975, pp. 6.18.) .
Le parole di Araki, nella forma di un’apparente semplicità che gli è tipica, ci offrono uno spunto importante: “Ho sempre avuto il desiderio di fare un romanzo attraverso la fotografia [….] la sceneggiatura esiste già e si nasconde nel soggetto fotografato. La storia si rivela quando il fotografo e il soggetto si incontrano e collaborano per crearla assieme. Non faccio mai da solo la sceneggiatura (Araki, viaggio sentimentale, Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato – mostra e catalogo a curo di Bruno Corà, Filippo Maggia – Prato, Gli ori, 2000) .
Ricorrere al racconto per Araki non è un segnale di sfiducia nei confronti del mezzo fotografico, ma la consapevolezza di poter elaborare una relazione complessa e in costante movimento tra soggetto e oggetto solamente all’interno di una struttura narrativa. Le strategie del reportage fotogratico realista di cui talvolta si serve, sono da considerarsi una delle varianti disponibili insieme al linguaggio marcatamente posturale del fotoromanzo (Nobuyoshi Araki, Suicide In tokyo, a Cura di Filippo Maggia, Torino, Baldini & Castoldi, 2002) , che identifica alcune delle sue raccolte; in entrambi i casi si tratta di far emergere elementi di verità, attraverso differenti aspetti della finzione.
Araki – Sentimental Erotic Romance Books
Può sembrare quasi un paradosso il concetto di “secondo cosmico” di cui Araki parla in alcune interviste; lo scatto singolo di tempo finito, che assume un significato a-temporale, rappresenta proprio quell’elemento di irriducibilità dello scatto fotografico alle strategie del racconto, un atto omicida nei confronti della vita, e paradossalmente una conquista della morte; la dissoluzione dell’impermanenza del racconto-memoria in un’immagine al di là del tempo. Ma se Araki riesce ad identificare un fotogramma che non può dischiudere, spiegare il suo atto di inquadrare, questo gli è possibile grazie a quello che Hockney stesso intuiva essere un ruolo possibile della soggettiva (non solo) fotografica; un atto di partecipazione, piuttosto che l’ottica passiva di un voyeur. Nel viaggio attraverso l’ormai soppresso quartiere a luci rosse di Shinjuku, commissionato da Akira Suei tra il 1983 e il 1985 per la rivista Photo Age (Nobuyoshy Araki, Tokyo Lucky Hole, Koln, Taschen, 1997) , Nobuyoshi Araki si immerge in un’orgia di sguardi che moltiplicano le intuizioni irrimediabilmente voyeuristiche dei Peep-show, un soggetto che di per sè non offriva e non si è sviluppato in un’ermeneutica particolarmente stimolante anche in tempi molto recenti, basta pensare al volume di testi e fotografie messo insieme da Erika Langley (Erika Langley, The lusty lady, Minneapolis, Scalo Books, 1997) sui sex club di Minneapolis.
Araki a Shinjuku trasforma la sua “commissione” in un reportage dove include se stesso come soggetto fotografato, spostando violentemente la posizione del voyeur e introducendo più camere-narranti. Il procedimento, ripetuto in una serie di performance dove Araki stesso partecipa, ha la funzione di inquadrare e re-inquadrare la posizione del soggetto interno/esterno alla narrazione, creando delle configurazioni successive per la posizione dell’autore stesso, la distanza tra il fotografo e l’oggetto è un diaframma che viene accentuato nella sua qualità opaca da tutte le impostazioni che ne rivendicano al contrario la trasparenza “oggettiva”, Araki nelle immagini scattate tra l’83 e l’85 si pone come spettatore e oggetto delle sue fotografie, creando un’idea di racconto che può generarsi solamente nel momento di partecipazione e di interazione alla performance, negando in questo modo l’orientamento dell’autore nella vertigine di altri sguardi, oppure riappropriandosene violentemente. Di tutte le risposte che Araki ha fornito a chi si trovava a chiedere l’origine del suo amore per la fotografia, la più interessante è quella fornita a Filippo Maggia il 10 dicembre 1999, e poi pubblicata successivamente nella documentazione allegata al catalogo della personale dedicata al fotografo Giapponese dal Museo Luigi Pecci di Prato “[…] mio padre fotografava […] usava un banco ottico: per me la prima esperienza non è stata quella di scattare, ma di stare accanto a lui e guardare la lastra. Li vedevo immagini rovesciate, architetture e così via. Questa è stata la mia prima “esperienza fotografica”, antecedente allo scatto […]”
Come osservare un’immagine allo specchio, attraverso un occhio esterno al proprio, per oltrepassare l’oscenità della superficie.