Loving è, sulla carta, uno dei tanti film che ripassa la storia americana relativamente recente, con specifica attenzione alla questione interrazziale. Si rimprovera spesso al cinema statunitense di voler sciacquare la coscienza sporca in blande produzioni con al centro una vicenda legata al conflitto di razza, la difficile convivenza tra parte bianca e parte nera, i suoi esiti spesso sanguinosi e moralmente indigesti, il corpo a corpo tra pregiudizio etnico e istanze universalistiche.
In questo caso, si tratta di un lungometraggio basato sulla vera storia di un matrimonio interrazziale, quello tra il biondo muratore Richard Loving (l’australiano Joel Edgerton, straordinario autore e attore del notevole The Gift) e l’esile afroamericana Mildred Jeter (l’etiope-irlandese Ruth Negga, quest’anno candidata come miglior attrice agli Oscar), vicini fin da giovanissimi in una Virginia rurale e retriva.
Un legame, il loro, da cui nacquero tre figli e che, a causa di ciò – l’illegittimità dei figli ‘misti’ –, venne punito dalla legge del paese con un esilio di almeno 25 anni. Solo l’interessamento, alla vigilia del Sessantotto e una decina d’anni dopo le nozze clandestine a Washington, di una lega a difesa dei diritti civili porta il caso alla Corte Suprema e innesca la modifica costituzionale. Se, dunque, nel suo rapporto diretto con il fatto storico, Loving rientra nella categoria dei film a stelle e strisce sui retaggi dello schiavismo e sul peso politico della pseudo-scientifica gerarchia razziale, la sua appartenenza al genere è, però, solo apparente.
La principale qualità di questo lungometraggio che il regista ha plasmato su un principio estetico e drammaturgico di understatement, è, infatti, quella di non subordinare la narrazione umana alla testimonianza storica, ma di sbilanciare i rapporti di dipendenza tra i due aspetti a favore del fattore affettivo.
A Jeff Nichols non interessa tanto portare sul grande schermo la ricostruzione di un evento epocale, quanto piuttosto osservarne, insieme con distacco e con rispetto, la timidezza dei suoi protagonisti e il loro amore profondo, ma silenzioso, fatto di gesti di quieta tenerezza, di connessioni addomesticate dalla mestizia del quotidiano.
Come il fotografo di Life, Grey Villet, che nel 1966 dedicò ai coniugi Loving un reportage casalingo divenuto iconico, anche il giovane Nichols, che da quel reportage si è fatto ispirare, s’acquatta in un angolo ad osservare, con la pazienza di aspettare l’apertura impercettibile, la grinza inattesa e minima nella tessitura dell’ordinario. Il pregio di Loving è, allora, tutto stilistico: sul grande schermo, prima che la Storia, viene rappresentata la relazione tra un marito e una moglie e il racconto di questa relazione viene affrontato con un linguaggio nuovo, mimetico rispetto al reale e anti-performativo, il ‘lessico famigliare’ di una coppia che si ama molto, ma parla poco, che reciprocamente si sostiene e si protegge ma senza tempo né vocazione per schermaglie e rivendicazioni sentimentali.
Loving è, allora, la storia di un amore comune che diventa straordinario e solo perché qualcun altro ne ha decretato, astrattamente, l’illegalità: il grottesco della proibizione risuona, dunque, potenziato, nella sua bizzarria e nella sua illogicità legalistica, dalla placida corresponsione affettiva in un matrimonio ‘criminale’ per cultura e senza macchia per natura.
Ed è significativo anche politicamente che sia la mitezza amorosa di una coppia taciturna e senza grilli per la testa, ben rappresentata dalla regia e ancor meglio interpretata da Joel Edgerton, solido nel corpo e nella lealtà sentimentale, e Ruth Negga, delicata nella fermezza del suo calore, a farsi porta d’accesso per una riflessione storica sulla convivenza interrazziale che rinnova ora, in America e nel mondo, la sua attualità e che il regista, in ogni caso, si rifiuta di considerare prioritaria rispetto alla contemplazione quasi impersonale della nuda forza degli affetti.