Mentre il Lucca Film Festival proietta Firpo nel concorso corti curato da Rachele Pollastrini, il regista argentino Fernando Caneda sta lavorando al suo primo lungometraggio, il cui titolo, Espacio-tempo, ci incuriosisce molto se consideriamo le premesse.
Negli anni ottanta, sopratutto attraverso la cultura musicale pop, era frequente subire l’innesto degli stimoli “catodici” con un recupero estetico e formale degli anni 20.
Basta pensare ai videoclip dei Matia Bazar prodotti dalla RAI per promuovere la svolta elettronica di “Tango” e lo spazio virtuale creato dai monitor di Piccio Raffanini, in una combinazione tra estetica futurista e le intuizioni di Nam June Paik.
Questo innesto temporale era frequentissimo e in un periodo in cui si recupera l’era dei synths analogici, si è completamente persa quella cicatrice, forse troppo lontana per essere compresa attraverso il contrasto tra passato e futuro.
Caneda sembra al contrario molto cosciente anche per età anagrafica (è del 1978) e nel ricostruire l’incubo di una comunità orwelliana controllata da dispositivi connettivi, sostituisce il digitale dei tablet con i catodi e il rumore bianco dei vecchi schermi, immergendo il set nei segni di un esoterismo che recupera i motivi grafici e architettonici di Bragaglia, Tofano e Lang.
Per Caneda, Firpo è un’elegia del dialogo, contro una società che ha perso completamente la dimensione del contatto, ma in questo piccolo saggio di fantascienza poetica sbilanciato dalla parte del design, i sentimenti e il calore vengono riattivati dai vecchi dispositivi meccanici, dalle immagini emulsionate, da una moviola, dai dispositivi a valvola.
Più di una fantasia vintage, ci sembra che Caneda sia interessato a raccontare il desiderio nel momento in cui anche l’immagine, nei suoi infiniti processi di rimediazione, riesce a caricarsi di proprietà aptiche. Schermi da toccare per sentire le vibrazioni elettrostatiche, onde magnetiche che ci attraversano, filamenti incandescenti che illuminano i nostri volti.
Una suggestiva elegia elettrica illuminata da un fascio digitale, il cui spazio-tempo non è distante dall’aberrazione del Dark City di Proyas, forse il riferimento più adatto per l’intero lavoro di Caneda. In una dimensione ridotta e maggiormente legata alla superficie, ciò che accumuna Firpo al film del cineasta australiano, è la consapevolezza che il cinema digitale, al pari delle tecnologie connettive a cui Caneda si riferisce, è un cinema dove la luce, oltre ai corpi, è di natura informazionale. Per disinnescarlo occorre prendere la scossa.