Luce e buio,dentro e fuori,nero colloso,sporco e bianco che, come uno schiaffo caldo, acceca la risalita. There will be blood si apre con un adagio dagli spigoli duri mettendo sul banco le opposizioni che ne costituiscono la spina dorsale. Il minatore qualunque Daniel Plainview incuneato nelle viscere della terra impastata del suo stesso(di tutti) sudore, un bel giorno, un giorno come gli altri, invece dell’argento trova il petrolio. A quel punto sorge la febbre, cresce come un’ inaspettata pustola pronta a inondare col suo pus tutta la California, Rapacità che sale in superfice nel silenzio del deserto-tutta la scena della trivellazione si svolge in un silenzio quasi biblico, preludio incandescente del mutismo del figlio che penderà sulla testa del protagonista fino alla fine.
I tratti del volto di Daniel Day Lewis, che non interpreta, ma impersona letteralmente il film, sono tutt’uno con le incrostazioni che il petrolio lascia sul suo viso, rendendolo maschera totemica della sua stessa possessione, inscindibili da esso anche quando,strigliato ben bene e col vestito a festa, declama l’apologia di una vita nuova di fronte agli abitanti dei villaggi dai quali vuole succhiare avidamente le arterie nascoste.
Vittima di una maledizione iniziata nel momento in cui la sua mano-nera di schiumante tesoro si è alzata verso il cielo in un silenzioso assenso-giubilo, Plainview, con al fianco suo figlio e socio- faccino dolce e utile spalla per impietosire e convincere- inizia la sua marcia, il cui termine è già scritto nei titoli di testa, quel blood falcidiato dalla consueta banalizzazione del titolo italiano.
Faccia gemella e opposta della stessa maledizione è il volto di un eccezionale Paul Dano, che è prima Paul Sunday, fratello astuto che segnalato il petrolio, prende i soldi e scappa (il suo volto brufoloso segna già l’avanzamento della malattia, l’allargamento della pustola) e poi Elay, sacerdote autoelettosi a capo dell’esercito della Terza Rivelazione, millantatore docile e rabbioso, pervertitore sottile della parola del Signore.
Il film di Anderson procede a scatti cavalcando l’onda di queste due possessioni, quella di Daniel ed Elay, identiche nell’impeto e nella dialettica- apparentemente diversa è la merce che propagandano, il Petrolio da una parte e Dio dall’altra, ma coincidente infine, quando Elay disperato per i peccati commessi va nella fortezza di Daniel a chiedere elemosina per il suo corpo mortale.
La loro fedeltà alla rispettiva causa è totale: Daniel, votato completamente alla sua mania, dimostra una volontà quasi monastica, completa di frigida castità- non ci sono donne accanto a lui, e quando il finto fratello lo porta,con l’intento di spassarsela, in un bordello, egli, che già presagisce l’inganno, non si lascia minimamente sedurre. Anche la presunta madre del figlio è completamente assente, rimossa, tagliata fuori dalla rivelazione finale in cui Daniel-signore del petrolio, dal trono villa che ha costruito a misura del suo impero, confessa crudelmente al figlio che è in realtà un orfano, adottato per l’unico scopo di costruire l’immagine di famiglia spezzata che impietosisce i fornitori di terre.
La scalata della vetta di Daniel,con successiva ricaduta, ricalcano perfettamente i topoi di un genere che al cinema ha fatto incetta a partire da Rapacità di Eric von Stroheim, (Greed, 1924) a cui è stato associato per le molte analogie ( tra la figura del protagonista Mc Teague,vincitore per caso alla lotteria e quella di Plainview, scopritore accidentale di petrolio,all’ambientazione di entrambi i film agli inizi del 900).Ma la struttura prevedibile non intacca minimamente la grandezza del film, che anzi, sorprende per l’esattezza del ritratto di un epica che il cinema sembra, da un po’,aver dimenticato.
Anderson si muove sapientemente con la regia, che è impeccabile, spingendosi sull’orlo e fermandosi appena prima del manierismo. Eccezionale la scena dello scoppio della trivella nella stazione petrolifera, in cui il figlio, H.W., perde l’udito: l’audio si alterna tra la concitazione dell’incidente unita agli ipnotici archi di Jhonny Greenwood e le intermittenze sorde, soggettiva del ragazzino, mentre la fotografia si tinge gradualmente di fuliggine,via via che il petrolio continua ad alzarsi verso l’alto, fino al rosso-nerastro dell’incendio, che balugina sul volto nero del petroliere felice-sì, anche se l’udito del figlio è compromesso- preda della sua totalizzante Missione.
Missione che si conclude alla fine del film, nella reggia sterile-perché lontana dalla sporcizia e collosità del petrolio- dove l’unico sporco è la spazzatura, residuo infausto di un consumismo che non nutre. Accampato sul pavimento troppo lucido della pista da bowling, con i resti della cena smozzicata a fargli da contorno, Daniel langue, ubriaco e stanco.
A resuscitarlo torna a sorpresa l’odio antico, il competitore ugualmente folle,Elay: dove non scorre più il petrolio, e non ha quindi più senso combattere, solo il Sangue può scorrere.
Come dice Pleinview al maggiordomo che lo chiama, solo adesso, con la terza rivelazione con la testa rotta che gronda sul pavimento,finalmente sporco, i conti pareggiati, il cerchio chiuso: “Ho finito”.