giovedì, Dicembre 19, 2024

Lucy di Luc Besson: la recensione

Si fosse trattato di Robert Rodríguez, una certa critica fanzinara avrebbe estratto dal cilindro il coniglietto post-moderno fuori tempo massimo per giustificarne la militanza pulp, ma è di Luc Besson che stiamo parlando, uno degli autori più violentemente maltrattati proprio a partire da tutti gli sconfinamenti che il suo cinema, da sempre, ha abitato senza alcuna preoccupazione di moderarsi. Sono radici ben piantate in quell’immaginario ottantiano formatosi attraverso lo sguardo di autori come Jean-Jacques Beineix, Leos Carax e lo stesso Besson, con film dalle forti implicazioni intertestuali, che nel pieno di un preciso dibattito teorico consentivano a Fredric Jameson di riferirsi a linguaggi ibridati, quando Tarantino non aveva ancora cominciato a sistemare una pila di VHS nel retrobottega di Video Archives.
La forza di Lucy, al di la e sopratutto oltre le ruminazioni sul futuro delle neuroscienze, sta proprio nel tentativo di metterci dentro tutto quanto con un’ipertrofia lanciatissima e scellerata da far impallidire i progetti partecipativi di McDonald / Salvatores; gli “automotive ads” che sfondano i confini del racconto, il digitale bruto (o il brutto del digitale), il videoclip come “unruly media”, territorio di nuove convergenze dove la sovrapposizione e l’accelerazione rielaborano i formati del passato intensificandone i parametri audiovisuali e frammentando l’immagine nel continuo slittamento relazionale tra media e piattaforma. La parte conclusiva del film di Besson, dove Scarlett Johansson modifica le nozioni conosciute di tempo con una combinazione di sguardo e tatto, ci è sembrata un magnifico occhio globale, sbilanciato tra il mashup dell’esperienza privata e le strategie creative di remixing. Rispetto alla cecità digitale dei Cattet-Forzani, Besson se ne frega della sperimentazione plagiarista e veicola il paradosso di una multitemporalità digitale nel corpo di quella continuità post-classica che dipende certamente dal dispositivo tecnologico ma come movimento spettacolare enfatizzato e senza bordi. Se per i suoi detrattori, Lucy soffre di un’estrema illogicità narrativa, per quanto ci riguarda questa è proprio la radice della sua straordinaria libertà e ambiguità cognitiva; apparentemente ancorato alla dinamica fumettistica del suo primo cinema, ne re-interpreta la serialità alla luce di un’esperienza intermediale aumentata, vera e propria porta dell’esperienza fenomenologica contemporanea, sottintesa dall’escamotage narrativo psicotropo, non a caso visualizzato come un’esplosione di particelle renderizzate, esattamente come nelle fiamme texturali dell’ultimo Cronenberg.

È allora sconfortante leggere ancora osservazioni sulla misura” del racconto, sulla verosimiglianza, sui limiti del buon gusto, quando Besson ci tiene i genitali in una mano mentre si avvicina alla mutazione del nostro modo di guardare la realtà. Preoccuparsi di limiti e confini è come immaginarsi, ancora oggi, la centralità identitaria della famiglia nucleare. Auguri.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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