Jiang Rong, pseudonimo di Lü Jiamin, classe 1946, è l’autore di quello che il titolo internazionale traduce dal cinese Wolf Totem, il libro più letto in Cina dopo il libretto rosso di Mao, a detta degli amanti delle statistiche.
Prima delle otto co-produzioni ufficiali tra Cina e Francia firmate nel 2010, Wolf Totem è stato fortemente voluto dal governo cinese che ha “perdonato” così ad Annaud quel Sette anni in Tibet che nel ’97 gli era valso il divieto d’ingresso entro i confini del Celeste Impero.
“Ho offeso la Cina con Sette anni ed è per questo che abbiamo deciso di non parlare molto della Cina di oggi ”.
Dichiarazione di scuse che, con buona pace delle popolazioni del Tibet e del Dalai Lama, ha riconciliato Annaud con il governo cinese e gli ha permesso di inoltrarsi in un’impresa molto impegnativa, per le difficoltà logistiche e per la quantità di animali che hanno dovuto subire notevoli training di adattamento alle riprese.
Annaud, probabilmente folgorato dalla lettura del libro, una carriera registica che lo portava naturalmente ad interessarsi di storie del genere, un budget di 40 milioni di dollari che apriva prospettive molto interessanti, ha accettato di girare in Cina cercando di non urtare troppe sensibilità.
La distribuzione italiana, da parte sua, non ha esitato a modificarne il titolo, forse ad uso delle masse, considerate inadeguate a capire una parola così inusitata come Totem.
Ne è derivato un Ultimo lupo che, più che alle steppe della Mongolia, fa pensare ai bracconieri del Parco Nazionale d’Abruzzo.
Eliminare una parola così simbolica dal titolo è come sfregiare la firma del pittore in basso nella tela. Il titolo è la summa di un’opera, la sua sintesi finale, il marchio di un autore, anche quando decide di intitolare “Senza titolo”.
Nel caso di Wolf Totem, il titolo italiano collabora allo straniamento del senso profondo dell’opera di Jiang Rong tanto quanto le scelte di regia di Jean-Jacques Annaud.
Il Totem è un animale, a volte una forza naturale, che protegge il clan che lo adotta ed è venerato come un Dio. La letteratura che ne ha trattato è sterminata, la serie di grandi nomi della scienza che l’hanno analizzato, sviscerato, illustrato è nutrita.
Il film di Annaud opta per il blockbuster, lo nobilita con una verniciatura ecologista di superficie, inanella tutta una serie di luoghi comuni capaci di ingenerare noia profonda, riesce a tener desta l’attenzione solo per merito dei magnifici scenari naturali che la Mongolia offre e che una buona fotografia porta abbastanza integri fino a noi.
Al contrario, una colonna sonora debordante e frastornante rompe di continuo gli altissimi silenzi che immaginiamo continuino a dominare intatti in quelle steppe lontane.
Quanto al resto, L’ultimo lupo è una buona occasione sprecata.
La tematica di fondo, il lupo, il suo valore di simbolo, cerniera fra il mondo dell’uomo e la natura, sintesi fra pensiero magico e pensiero razionale-scientifico, si annacqua in un generico buonismo animalista a cui collabora una galleria di personaggi appena abbozzati, vittime di una sceneggiatura piena di buchi e incongruenze, che tenta a fatica di recuperare qualche credito nel settore dell’animismo con enfatici richiami ad un aldilà di spiriti a cui uomini e lupi tenderebbero.
Il conflitto fra tradizione e modernizzazione, l’altro tema forte del romanzo autobiografico di Lü Jiamin, è relegato a cornice di contorno, con figurine stereotipate che entrano di tanto in tanto in scena a ricordarci che siamo nella Cina della Rivoluzione Culturale e con voce grossa ordinano: “Si fa quel che il Partito comanda”.
Sparita ogni dialettica che ravvivi la progressione della storia e ne renda la complessità, drammaturgia povera, non di rado incongruente (il giovane Chen Zhen che, dopo aver negato all’amata di voler andar via, chiude l’ultima scena con un bel : “Torno in città dove sempre ho voluto tornare”), restano i lupi della steppa mongola, bellissimi, quella razza particolare caratterizzata da occhi di diamante e pelliccia dai colori dell’aurora boreale.
Il lupo per i mongoli è un Dio, Lü Jiamin lo sa bene, lui che è vissuto undici anni in Mongolia, guardia rossa eretica che scelse di esser mandato lì in rieducazione per salvare dal rogo i suoi amati libri (nel film questo particolare è appena accennato).
Vivere con quelle popolazioni lo rieducò a tal punto che lo ritrovammo nell’ ’89 tra i protagonisti di piazza Tienanmen. Uscito di prigione nel ’91, dopo aver fortunosamente salvato la pelle, vive nella Cina odierna che accetta il suo romanzo per considerazioni d’immagine molto facili da comprendere (sarebbe più dannoso censurarlo), ma purchè passi per libro a tema ambientalista “sul rapporto tra uomo e natura, uomo e animale“.
Come dire, parliamo solo il minimo indispensabile di politica, anche se è di tempi passati.
Ed è quello che Annaud riesce a fare, impoverendo oltremodo il tema socio-politico legato allo straniamento che una comunità subisce nel momento in cui vengono meno i suoi Totem e programmi totalitari di normalizzazione impongono modelli culturali estranei e dannosi.
La storia di Chen Zhen (alias di Lü Jiamin), studente di Pechino inviato nelle zone interne della Mongolia per insegnare l’alfabeto ad una tribù nomade di pastori, è la storia di un’epoca di grandi mistificazioni, di modelli culturali imposti con la forza e di indicibili sofferenze procurate al popolo.
Eccessivo focalizzare tutto su Chen che un giorno trova un cucciolo di lupo e lo salva dalla campagna di sterminio decisa dal governo per favorire l’agricoltura.
La sua decisione di addomesticarlo e il legame che s’instaura tra loro, l’ammirazione per la forza e l’astuzia dell’animale, la decisione finale di lasciarlo libero sono momenti di lirismo molto intimo.
Per reggere un impianto che poggia su dinamiche sociali e politiche di grande peso e sul loro impatto devastante con l’ambiente naturale è davvero troppo poco.