E’ un lavoro minuzioso quello di Elio Sofia alla sua prima regia con “L’ultimo metro di pellicola”, perché coniuga abilmente storiografia e sentimenti, entrambi fortemente necessari alla narrazione di quell’avventura cinematografica che fino a poco tempo fa ha messo al centro la storia di un supporto quasi del tutto cancellato nella prassi delle sale, dal passaggio forse dovuto, certamente sofferto al digitale.
Sofia costruisce il racconto a partire dalla storia di via Giuseppe De Felice a Catania, la “strada del Cinema”, nota a partire dagli anni ’40 per essere stata il fulcro dove si concentravano le case di distribuzione di pellicole e materiale pubblicitario di riferimento per tutta la Sicilia e parte della Calabria.
Su questa traccia importantissima per la Storia locale, Sofia ne include una globale che ha toccato tutti coloro che hanno vissuto quest’epoca.
Il fil rouge viene difatti tenuto insieme dalle voci e dai racconti dei protagonisti, gestori di cinema, proiezionisti con il contributo fondamentale di attori e autori come Leo Gullotta, Daniele Ciprì e Tea Falco, i quali ci offrono il senso di quella che è stata la storia e il ‘peso’ materiale della pellicola, sia nel Cinema che nel proprio atlante sentimentale di segni e visioni.
“L’ultimo metro di pellicola – nelle parole del regista – è un atto d’amore per la storia del Cinema, fatta di persone spesso non conosciute ai più ma che hanno contribuito al successo nell’immaginario collettivo della settima arte. Con questo documentario ho dato voce a un mondo che nessuno si era soffermato a raccontare prima, se non Giuseppe Tornatore con il suo magnifico Nuovo Cinema Paradiso”.
“Per fare questo mestiere bisogna amare la pellicola…Se non si ama la pellicola si farà un mestiere dietro pagamento soltanto… Questo è un mestiere che bisogna fare con amore…”
Elio Sofia è un regista catanese e il suo primo lavoro, “L’ultimo metro di pellicola”, ha ricevuto il Premio Cariddi quale Miglior Documentario al Taormina Film Fest 2015 ed è arrivato finalista ai Nastri D’Argento 2016 nella sezione dei documentari che raccontano il cinema.
Il film è autoprodotto dallo Studio Gazzoli – di cui fa parte lo stesso regista insieme a Daniele Gangemi, Carmelo Sfogliano, Ottavio D’Urso e Fino La Leggia.
Nelle parole dei protagonisti del documentario emerge una forte esigenza di raccontare questo passaggio epocale dalla materia ai torrenti che ha cambiato totalmente la percezione del fare e del vedere cinema. Che tipo di reazioni ha raccolto?
Ho raccolto delle reazioni nettamente contrastanti, da una parte i proiezionisti, i distributori e magari lo stesso autore della fotografia e regista Daniele Ciprì e dall’altra i tecnici Cinemeccanica intenti al montaggio dei nuovi dispositivi di proiezione digitale. Per chi ha lavorato oltre cinquant’anni a stretto contatto con la pellicola, questo passaggio è coinciso con la fine della propria esperienza lavorativa con le relative emozioni che ciò ha comportato. Il digitale è stato visto come un oggetto freddo e misterioso, privo di quella materialità e fragilità che la pellicola ha da sempre rappresentato. Ognuno da parte propria ha avuto però una differente emozione al riguardo: per esempio il proiezionista da responsabile assoluto della qualità della proiezione si è ritrovato davanti ad un computer al quale dare soltanto l’input di programmazione e proiezione, cosa ben diversa dal continuo rapporto con la sistemazione del proiettore, dei mascherini e della pellicola. I distributori della SAC (Servizi Ausiliari Cinema) hanno sicuramente avuto il vantaggio del minor lavoro in termini di peso delle copie pellicole da incamerare e spedire continuamente giorno per giorno rispetto alle valigette del digitale ma a detta di molti questo prefigurerà il passo successivo della totale digitalizzazione del segnale di invio dei film che comporterà la chiusura e la fine dei distributori di zona.
E qual è la sua percezione?
La mia percezione è quella di una rivoluzione come tante altre sono già avvenute nel cinema. Dal muto al sonoro, dal b/n al colore e ora dalla pellicola al digitale. Nessuno ci vieta di fare un film in b/n e senza sonoro (il bellissimo e premiato caso di The Artist ne è un esempio) e nessuno vieterà la possibilità di fare un film in pellicola ma le difficoltà di realizzazione e poi a maggior ragione di proiezione in pellicola su larga scala sono sotto gli occhi di tutti. Quello della pellicola è un mondo al crepuscolo che sopravvivrà magari come scelta artistica di stile e filosofia registica ma sicuramente non come scelta economico produttiva.
L’approccio de “L’ultimo metro di pellicola” colpisce per il suo assestarsi a metà tra la storiografia, fondamentale per dare il senso delle proprie radici, e la nostalgia rispetto a un mondo che con la sua artigianalità riusciva a dare una spinta maggiore all’immaginazione. Come si bilancia il progresso della storia tecnologica con la memoria?
Attraverso la conoscenza e il rispetto del passato. Come in tutte le cose la conoscenza del passato ci può far apprezzare il presente e dare magari gli strumenti idonei per dirigere consapevolmente il nostro futuro. Sembra impossibile eppure giovani ventenni di oggi non saprebbero rapportarsi all’utilizzo di un walkman e su come sia possibile incidere della musica o dei film su nastri. Ma è sotto gli occhi di tutti al tempo stesso che la riscoperta dei vinili ha significato un riconoscimento dello spazio che hanno ricoperto nella storia e lo stesso sta avvenendo con la necessità e importanza di restaurare le pellicole cinematografiche che rischiano di distruggersi. Tanto si perderebbe del nostro passato e della nostra memoria e quindi avremmo sempre più un presente povero e un futuro incerto. L’immaginazione è il vero motore positivo del progresso tecnologico ma nasce dalla piena conoscenza delle mancanze del nostro passato e dalle necessità del nostro presente.
Dove trova la fonte della sua ispirazione oggi, come autore di cinema?
Personalmente dalla continua osservazione della realtà che mi circonda, fatta di gesti e persone semplici e magari molto abitudinarie ma che possono racchiudere tanta poesia che vale la pena di raccontare. Proprio così è nata la scelta stilistica del mio film documentario; avrei potuto raccontare e documentare semplicemente la fine della pellicola ma mi sarei perso tutta la poesia dei miei personaggi. Molti autori sono impegnati a raccontare i grandi fatti di cronaca, io preferisco raccontare le piccole storie che magari come in questo caso diventano universali.
Sono illuminanti le parole di Ciprì quando afferma che “un film si potrebbe fare anche senza attrezzatura di supporto, anche senza pellicola, perché il film c’è già ed è nella nostra mente”. Cosa ne pensa di questo assunto?
Mi trovo pienamente d’accordo, questo era anche il pensiero del grande Federico Fellini; nella mente di un autore i film esistono già, la realizzazione materiale è solo un passaggio successivo che dà concretezza al tutto. Mi capita di conversare con Daniele Ciprì circa nuovi progetti e ridere insieme delle tante idee come si trattasse di film già realizzati e visti proprio perché magari abbiamo quella immaginazione tale che ci fa comprendere che quel mondo nella nostra testa esiste già.
Quindi l’immaginazione è forse il supporto più vivo di tutti perché imperituro e permette al film di vivere anche dopo il filmare e il proiettare ancora e ancora. È così anche per lei?
Si l’immaginazione per me è tutto, fin da piccolo è stata la mia compagna di gioco prediletta, quella con la quale si vivono avventure incredibili e uniche. Bisognerebbe coltivare la propria immaginazione anche da adulti come un vero esercizio mentale è l’unico modo per tenere vivo questo particolare “supporto”. Mi capita troppo spesso di perdermi nei viaggi della mia immaginazione e alla fine mi ritrovo pieno di pagine di appunti e spunti. Anche i sogni e la capacità di ricordarli possono offrire la possibilità di coltivare e conoscere meglio il nostro grado di immaginazione. Se nella storia non avessimo avuto grandi menti con la loro immaginazione oggi saremmo ancora nella preistoria.
Come affronta questo passaggio dalla mente al supporto? Cosa predilige utilizzare?
Di sicuro questo ogni volta è il passaggio più difficile perché non si è più soli con la propria mente ma si entra in rapporto con il mondo reale con le sue regole e dove anche volendo non siamo mai soli nel percorso intrapreso e tutto quello che fino ad un attimo prima nella nostra mente appare ovvio e scontato improvvisamente diventa una difficile ascesa verso la concretizzazione. Il primo passo che cerco di mettere in pratica è sicuramente trasmettere la mia visione agli altri con le stesse emozioni che ha suscitato in me, perché ritengo che solo attraverso la comune emozione di intenti si possano raggiungere risultati soddisfacenti; mi risulterebbe difficile lavorare con qualcuno che non creda con tutto se stesso in quello che stiamo facendo. Spero di avere un giorno la fortuna di poter girare in pellicola, ho già immaginato diverse situazioni in pellicola e spero un giorno di provare questa vecchia emozione di girare in pellicola.
Un altro segno di questa mutazione sembra essere il progressivo rimpiazzo della preziosa attività di proiezionisti, gestori di cinema con l’immaterialità dei nuovi dispositivi elettronici per la proiezione. È una questione umana, politica, artistica o tutte e tre le cose insieme?
Sicuramente umana e artistica, politica forse un po’ meno e un po’ più di tipo tecnologico. La pellicola ha dei costi elevati per quanto riguarda la stampa e il trasporto; il digitale taglia questi costi ma al tempo stesso quell’elemento umano e anche lavorativo legato a questo segmento della filiera cinematografica viene meno. Spetta a noi autori e soprattutto al pubblico fare in modo tale che le sale cinematografiche si riempiano e i cinema non chiudano. Spetta alla politica adoperare strumenti di salvaguardia del nostro patrimonio culturale e sociale al quale il cinema italiano ha contribuito non poco. Ognuno deve fare la propria parte per il bene reciproco, in Francia già da tempo ci riescono occorre prendere esempio.
La tecnologia odierna nel suo film viene descritta come “una sorta di Hal 9000 che pensa e agisce” senza la necessità della mano umana che con i suoi errori in fase di proiezione dava quasi la possibilità al film di mostrare un volto diverso di sé, seppur non in sintonia “con quanto era previsto”. Quanto si è perso di questa bellezza insita nell’imprevisto?
Si è perso molto anche se a ben guardare emergono già tutti i limiti della proiezione in digitale. Macchine non settate bene, lampade non a pieno regime, audio mal impostato e colorimetria inesistente sono problemi di molte sale digitalizzate. Si è passati da alcuni problemi legati alla proiezione in pellicola ad altri legati al supporto digitale molto più complicati da sistemare in fase di proiezione. Capiterà di vedere film scuri, tendenti al verde, con audio scarso e i bordi tagliati e questa volta non sarà colpa della pellicola.
Senza sbilanciarsi troppo su ‘cosa sia meglio o peggio’, cosa crede che ci stiamo lasciando alle spalle e in quale direzione crede che stiamo andando?
Credo che ci stiamo lasciando alle spalle una storia importante e ci stiamo totalmente amalgamando con una intera esistenza digitale, non solo quindi cinematografica. Occorre capire veramente le potenzialità del digitale e sfruttarle a nostro vantaggio ma occorre altresì capirne i limiti e soprattutto non subirli passivamente. Si possono girare film con il cellulare, ma non tutti sono in grado di farlo all’altezza e non tutti i cellulari sono uguali, allora la migliore idea deve essere messa al servizio della migliore tecnologia così da ottenere risultati ottimali.
Un altro aspetto che emerge dalla voce dei protagonisti che hanno vissuto l’epoca d’oro della pellicola è quello della diversa concezione del mestiere rispetto al passato, quando si aveva realmente la possibilità di formarsi attraverso il lavoro rispetto alla bulimia dei giorni nostri nei quali sembra non bastare mai ciò che si è e il proprio potenziale, spingendo a reinventarsi a tutti i costi ancor prima di aver appreso veramente un mestiere. Qual è il suo approccio a questo mestiere e il suo background?
La mia storia è un po’ sui generis rispetto al giorno d’oggi fatto di scuole cinematografiche di ogni sorta in quanto ho un background fatto di studi giuridici e per nulla cinematografici eppure il cinema e il teatro sono sempre stati per me come qualcosa che a livello emozionale non ho mai sentito distante dal mio essere. Per tanti anni ho seguito laboratori di teatro e per tanti altri ancora sono andato a teatro due o tre volte a settimana a vedere tutti i tipi di spettacoli, belli o brutti, amatoriali o di grandi autori, senza alcun pregiudizio e credo che questa palestra mi abbia dato quanto meno gli strumenti di critica necessari a comprendere ciò che guardo. Lo stesso è avvenuto con i film e i documentari: ne ho visti tanti cercando di cogliere tutti gli elementi che li compongono dalla sceneggiatura alla fotografia, dalla recitazione alla regia. Ritengo quindi che la mia scuola sia stata l’osservazione attiva e non passiva del “prodotto teatrale o cinematografico”. Sono pienamente consapevole che lo studio continuo è fondamentale e il mio percorso è solo all’inizio, spero quindi di poter sempre più affinare tecnica e gusto mettendoli sempre al servizio dello spettatore.
L’omaggio alla storica “via del Cinema” G. De Felice a Catania ne mostra il cuore pulsante, i cui arti e le cui membra sono la Sicilia intera e parte della Calabria, tra cinema e case di distribuzione che lavorano con le pellicole, oggi perlopiù costrette a spedire le ‘pizze’ al macero. Cosa resta di quella famosa strada e Come è cambiato il Cinema in Sicilia?
Della famosa via Giuseppe De Felice di Catania meglio nota come la “via del Cinema” restano oggi purtroppo tante e troppe saracinesche chiuse. Tante gloriose botteghe oggi anonime mostrano cartelli di Locasi e Vendesi. Là dove generazioni di Siciliani si sono approvvigionati di manifesti cinematografici, oggi sorge un centro massaggi cinese. La storia e la gloria della via si è spenta lentamente nell’indifferenza della città e delle sue istituzioni eppure un tempo se avevi un cinema dovevi per forza di cose conoscere e frequentare questa via; anche lo stesso Giuseppe Tornatore da giovane partiva con la corriera da Bagheria per giungere qui a rifornirsi di pellicole. Questa mia opera prima vuole tributare a questa via e ai suoi protagonisti il merito di averci regalato tanti momenti felici ed indimenticabili, vissuti nel buio di una sala cinematografica osservando un fascio di luce su di un lenzuolo bianco con il sottofondo dell’inconfondibile rumore di un proiettore in pellicola.