Al centro di questa opera seconda di Jean-Gabriel Périot, Lumières d’été (“Luci d’estate”), c’è un paradosso: protagonista è un concetto, il peso della storia, ma, a livello formale, il film è quanto di più etereo e delicato esiste. Come un racconto d’estate è sì lieve e luminoso, ma anche piatto e vaporoso, incapace di scavare un solco.
Lumières d’été comincia con una lunga intervista condotta da Akihiro, un giornalista giapponese che vive a Parigi, a un’anziana sopravvissuta della bomba A. Siamo ad Hiroshima, luogo emblema della violenza della Storia che fagocita la vita nelle sue meccaniche impersonali. Akihiro incontra Michiko, una giovane donna gioviale vestita in abiti tradizionali cha lo accompagna alla scoperta delle città e – man mano che la relazione s’approfondisce – di radici che credeva annacquate e che invece resistono a un livello profondo.
L’allegorizzazione della figura femminile, la sua condizione ancipite di creatura in carne ed ossa e di simbolo – dell’invadenza fantasmatica del passato, la pervicacia della memoria che non dilegua, ma, seguendo rotte imperscrutabili riaffiora quando la si credeva sepolta – è insieme un elemento affascinante, nel suo recupero di un sostrato folklorico proprio della cultura del Sol Levante, e un limite, perché scoperchiata e didascalica nella sua figuralità prevedibile che lancia indizi non richiesti. Molto bravi gli interpreti principali di un’amicizia amorosa singolarmente elegiaca e ciarliera che ricorda, in qualche modo, i romance verbosi di Linklater: lei è Akane Tatsukawa che, esibendosi in un imeneo rovesciato – il canto di una fanciulla che appassisce nell’attesa di un amore che non sa più dove cercare – realizza il momento più lirico del film; lui è Hiroto Ogi, immalinconito dallo stare in mezzo a due universi senza riuscire mai a toccar terra.