giovedì, Dicembre 19, 2024

L’uomo Fedele: l’incontro con Louis Garrel e la recensione del film

“Quando mi stanco di fare il regista vado a prendere il posto dell’attore, quando sono stufo di fare l’attore torno al posto del regista”

Louis Garrel dirige se stesso, una centratissima Leatitia Casta e la promettente Lily-Rose Depp ne L’uomo fedele, presenta il suo lavoro alla stampa romana con una giocosità che lo diverte, e diverte. Trentacinque anni, figlio d’arte, una già lunga filmografia alle spalle nei panni di interprete, conserva, dentro e fuori dal set, un’attitudine da eterno ragazzo: “enfant prodige” non è etichetta in rapporto a una condizione anagrafica, ma disposizione sentimentale, e qui cinefila, che, in una partita a scacchi con il tempo, continua a riproporsi in molteplici variazioni sul tema. E il tema è, ancora una volta, quello di una spiccata “francesità” al cinema.

[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#F39007″ class=”” size=””]“Il film si apre su un cliché: c’è Parigi, c’è la Tour Eiffel. In questa atmosfera molto francese, ogni scena doveva essere sorprendente. Jean-Claude conosce più di me la velocità con cui lo spettatore arriva ad immaginare lo sviluppo di quello che sta vedendo, e abbiamo lavorato su questo, è stata la nostra sfida.”[/perfectpullquote]

Intriso di Truffaut”, al fianco di quel Jean-Claude Carrière autore, tra gli altri, per Buñuel e Forman, Garrel scrive un divertissement della memoria, percorre la visione dei temi e delle forme a lui più prossimi per visitarli con minuziosa – e fiera – aderenza, e pure furbo, brillante distacco, mettendo in scena una focalizzazione doppia: reiterazione ennesima quanto compiaciuta di una certa idea di cinema e insieme, sua mordace collocazione in prospettiva. Un pastiche di schemi narrativi saldati sotto il segno di una dirompente leggerezza che cavalca l’ “onda” della riflessività esistenzialista con disinvolta (auto)ironia.

Quello tra Abel (Garrel), il più irresoluto, malleabile e condiscendente degli amanti ossessivi, Marianne (Casta), ferma e calcolatrice quanto magnetica ed enigmatica protagonista, ed Eve (Depp), bizzarra giovane donna, innamorata dell’idea dell’amore, equazione di Abel, sin da bambina, è il più classico dei ménage à trois che pur con una quarta variabile in absentia, Paul, ex marito vivo o morto sempre ingombrante, e un figlio (forse) troppo fantasioso, fervido appassionato di polizieschi, a nutrire il dubbio di una madre, Marianne, davvero “fatale”, non aggiungerebbe nulla al già mostrato, non fosse il colore esegetico delle voci fuori campo. Il sé dello spazio mentale edifica un controcanto su quello dello spazio scenico, lo completa, lo complica, lo rovescia con un fare dissacratorio che omaggia anche Allen.

[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#F39007″ class=”” size=””]“Ci sono momenti in cui il cinema mi sembra qualcosa di mostruoso, artificiale. In quei momenti penso ai film in cui la verità è al primo posto, e se sono fragile metto un film di Woody Allen. Mi ritrovo nel suo humor, come lui mi piace scherzare anche nel dramma”.[/perfectpullquote]

Esperto del gioco con la vita privata”, complice la lezione di Cassavetes, Garrel investe la propria – “l’unico rischio che si corre, tuttalpiù, è quello di fare un brutto film” – per arrivare al fondo dell’ambiguo, dell’assurdo che è l’umano, in un discorso che con assoluta e disinibita spontaneità si interroga anche sulla fluidità dei generi.

Marianne è educatamente spregiudicata: aspetta un figlio, non è di Abel, si sposerà con l’altro. Lo è di nuovo, anni dopo, riallacciata la relazione: Abel deve andare a letto con l’altra per capire chi voglia scegliere. E Abel, due volte, non fa una piega.

Quando ho letto il copione ho capito che tutto era già stato ben definito da Louis e Jean-Claude, preciso, come una musica molto bella ma difficile da suonare per essere naturale. Mi sono chiesta come fare a rendere questo personaggio reale, con la pelle, non troppo duro. Ho cercato di entrare in empatia con Marianne scoprendone la generosità. Mi sono completamente distaccata dal senso di colpa, me ne sono liberata per tutto il film, avendo bene in mente dove volevo andare. E’ bello per una donna non avere questo sentimento, la colpa, e mi sono detta che anche nella mia vita dovrei fare così da adesso in poi”, racconta Casta con passione prima, e sarcasmo poi, continuando: “i film d’amore sono quelli che mi piacciono di più, penso per esempio a Le mepris, a tutti quei film in cui l’amore è affrontato con ambivalenza, in cui lo sguardo femminile, e sul femminile, è molto interessante. A volte c’è una commercializzazione dell’idea d’amore che non mi piace, al contrario mi piace L’uomo fedele perché non si sa bene dove vadano i personaggi. Marianne a volte diventa uomo, Abel donna, i rapporti si invertono. E’ stupendo perché la vita è così, complessa.”

Abel non determina mai nulla, neanche quando crede di farlo, la sua è una virilità agita, dissimulata.

[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#F39007″ class=”” size=””]“Sono sempre stato circondato da donne forti, sanno come fare per essere equilibrate. Mi rendo conto che qualche ragazzo possa fare fatica ad identificarsi, ma per me è familiare lasciar decidere le donne. C’è un piacere nell’essere guidato nella vita”.[/perfectpullquote]

Già parte qualche sprovveduto applauso, quando Laetitia ribalta il punto di vista: “è anche questa una maniera di tenere il potere, non prendere decisioni è la sua libertà…nel personaggio”.

Veronica Canalini
Veronica Canalini
Critica Cinematografica iscritta al SNCCI. Si anche classificata al secondo posto al concorso di critica cinematografica “Genere femminile: quando le donne criticano il cinema” indetto da Artemedia, oltre a scrivere di Cinema per Indie-eye, si è occupata di critica letteraria per il Corriere del Conero.

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