Alessandro Genovesi continua a realizzare film “condominiali”, dopo l’ambientazione temporalmente indefinita di Soap Opera sceglie una Napoli cartolinesca, rappresentata con il consueto gusto per la deformazione prospettica caro al regista milanese; del capoluogo campano ci sono alcuni vicoli del centro storico, quasi tutti intorno all’area dei decumani, ma la sensazione che si ricava è quella di una chiusura a doppia mandata entro il recinto estetico controllatissimo del film, tanto che il primo percorso tra le vie del centro è quello di Guido (Claudio Bisio) in sella alla sua bicicletta, mentre il punto di vista dal basso verso il cielo è parallelo a quello tecno-pubblicitario di una go-pro.
Da qui in poi, fatte salve alcune uscite notturne in stile turistico e il bacio in vetta al faro tra Bisio e la Lodovini, “Ma che Bella Sorpresa” è confinato tutto negli spazi di corte, cortile, pianerottolo, appartamenti e aule scolastiche, a conferma del fatto che la commedia di Genovesi si basa essenzialmente sull’orchestrazione del quadretto d’insieme e sulla coralità teatrale; basta pensare a tutta la dinamica che mette in comunicazione gli appartamenti della Lodovini e di Bisio, in una divisione dello spazio che a qualcuno ricorderà le commedie americane degli anni ’50 ma che in realtà ha un valore semplicemente calligrafico; non è un caso che nelle recenti produzioni italiane, si faccia un largo uso di queste dinamiche che “sfondano” il set o lo aprono ad una visione d’insieme (in Fratelli Unici, nel pessimo Si accettano Miracoli, nel già citato Soap Opera); strategie vecchissime, e che dialogano fino ad un certo punto con il passato a cui vorrebbero riferirsi; la derivazione è più vicina a quella di una soap con un surplus decorativo, tanto che l’origine del film è una commedia Brasiliana del 2009 diretta da Claudio Torres e intitolata “A Mulher Invisível”, strutturalmente già pronta per la versione espansa nel formato seriale prodotto da Rete Globo due anni dopo.
I colori iperrealisti e sparatissimi, il gusto per la maschera grottesca, in questo caso affidato principalmente ai genitori di Guido, interpretati da Renato Pozzetto e Ornella Vanoni, e una certa “magia” alla Luigi Zampa, tornano anche in questo film, con la figura della fidanzata invisibile che in qualche modo sembra una replica di un personaggio già fantasmatico, come quello interpretato da Elisa Sednaoui nel film precedente di Genovesi, ma in questo caso banalizzato nello schema un po’ trito di una fantasia letteraria, quasi una versione tiepida e per niente traumatica della (splendida e inquietante) Ruby Sparks, quella si una reinvenzione dei modelli classici alla luce di un nuovo, complesso desiderio di “genere”.
Per il resto, pur impostando un meccanismo più basico, meno pretenzioso rispetto a Soap Opera e più funzionalmente divertente, il film ci sembra che fallisca, prima di tutto per il modo in cui reintroduce la dicotomia nord-sud con una serie di gag e concetti di grana grossa a cui il cinema italiano ci ha abituati nell’ultimo decennio fino a non poterne più, ma sopratutto sbaglia bersaglio proprio nel tentativo di seguire un incedere di tipo musicale, perché tra i pezzi di Carosone e quelli di Murolo, tutto rimane in superficie e non imposta il ritmo né ci si compromette; siamo lontanissimi, per esempio, dal metissage musicale di Roberta Torre. Napoli, in fondo, nel film di Genovesi, finisce per essere osservata a distanza, dall’alto di un drone.