sabato, Novembre 23, 2024

Ma Loute di Bruno Dumont: un grido; muto

Tra Camille Claudel e P’tit Quinquin c’è Ma Loute, ovvero tutto il cinema di Bruno Dumont tra eccessi e radicale scarnificazione dell’immagine. Da una parte le Fiandre e il nord della Francia, paesaggi indifferenti che non dialogano con i corpi, ma diventano superfici piatte senza orizzonte, la cui inscalfibilità si cerca di scheggiare con il grido. Dall’altra personaggi chiusi in un’autocombustione che li consuma dall’interno, ma impenetrabili dall’esterno come in quell’immagine della follia del tutto anti bressoniana, per come ne parlavamo ai tempi di Camille Claudel. P’tit Quinquin, rovescio grottesco che ha “ingannato” anche i detrattori del cineasta francese, declinava la follia attraverso la proliferazione di situazioni e traducendo sostanzialmente quell’impenetrabilità positivamente stolida del suo cinema in un formato più espanso e reso digeribile da una diversa percezione della deformità grottesca, ma non per questo meno radicale.

Ma Loute parte proprio da qui. Francia 1910, la visione del progresso mutuata dal secolo precedente, la prima guerra mondiale ad un lustro di distanza. Due famiglie contrapposte, i ricchi borghesi Van Peteghern e i proletari Brufort. Dumont insiste sui volti e sulla bizzarria, quelli dei Brufort hanno i segni che si portano dietro alcuni dei suoi personaggi, non ultima la coppia di Hors Satan, con cui i Brufort condividono la furia omicida. La deriva sembra gore, nelle attitudini del clan a massacrare villeggianti e a utilizzare le membra come materia per i pasti principali, ma chi si è stupito, forse è rimasto fermo a L’humanité.

Da P’tit Quinquin Dumont desume i due poliziotti che indagano su alcune misteriose scomparse, puntando sull’elemento slapstick come traduzione di un’alterità, in quel rapporto tra visibile e invisibile che definisce quasi tutto il suo cinema, con un’idea che non è quella bressoniana di fuori campo, come si diceva, ma si manifesta attraverso la forma residuale dell’immagine, ovvero ciò che è rimasto all’occhio ancora da vedere, rispetto a quello che non si può vedere. In questo senso, la follia o la stoltezza sono due declinazioni della stessa superficie, dello stesso grido muto rispetto al vuoto di senso.

Lo slapstick in questo senso, formidabile traduzione di un’energia che gira a vuoto e su se stessa, è l’esasperazione del concetto e non ha certo niente a che vedere con l’oleografia di certo cinema ancorato al “paradiso” delle nostalgie. Fabrice Luchini, Valeria Bruni Tedeschi, Juliette Binoche coinvolti in una rutilante esasperazione dove viene messo al centro lo scarto espressivo, l’iperrealismo del gesto, la distorsione della smorfia, tra lucidità estrema e opacità delle superfici. Un grande film disumano.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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