Quando Leah (Diane Keaton) riesce a cantare “The shadow of your smile” senza scoppiare a piangere, la scrittura di Rob Reiner si separa in modo chiarissimo da quella di Mark Andrus, sceneggiatore dalla rara frequenza, molto legato alle storie crepuscolari.
Mentre il racconto spingerebbe verso il Tête-à-tête Reiner comincia a seguire altre strade, altri confronti, in fondo altre storie d’amore con un montaggio tanto semplice quanto capace di sfiorare con tocco di grande ispirazione cinematografica la complessità dei sentimenti, raccontando un’intera storia famigliare sulla musica di Johnny Mandel, tanto che lo sguardo amorevole descritto dalle parole di Paul Francis Webster è anche quello di Michael Douglas che osserva il figlio.
È la stessa necessità di staccarsi dall’attrazione nei confronti della morte che Oren Little (Michael Douglas) cerca di comunicare a Leah, protetto dalla corazza del suo apparente cinismo, come possibilità di osservare il mondo con occhi nuovi, perchè “And so it goes” non è semplicemente un film sull’incapacità di esprimere amore da parte di un uomo rimasto solo troppo a lungo, come una naturale evoluzione dei personaggi di “As Good as It Gets”, la sceneggiatura scritta da Andrus per il noto film di James L. Brooks, ma è anche un incredibile atto di resistenza contro la dissoluzione della memoria nella possibilità che questa possa vivere nuovamente dentro lo sguardo degli altri, un tema in fondo molto vicino al cinema di Reiner, che non a caso introduce le prime immagini del film con “Both Sides, Now” la canzone scritta da Joni Mitchell sulle illusioni della vita, nella bellissima versione interpretata da Judy Collins.
E sembra proprio un’illusione, la casa vuota dove Oren ha vissuto per più di trent’anni, pronta per la vendita, dove l’anziano agente immobiliare sostituisce tutte le volte l’immagine contenuta in una cornice, in sintonia con i nuovi possibili acquirenti; sono immagini palindrome della vita, le figure crepuscolari che circondano lo stesso Oren, Claire (Frances Sternhagen) quasi una sorella o un’amante lontana e Frankie Valli in persona mentre accoglie Leah per una surreale audizione nel suo locale; oppure la madre che Sarah non ha mai visto, figura spettrale in ogni senso, ed infine Artie, il pianista che accompagna Leah durante i suoi concerti interpretato dallo stesso Rob Reiner, figura tenerissima costretta da sempre a rimanere in una posizione marginale e che percorre la scena trasversalmente, per scomparire ogni volta.
Quello che rende diverso Mai cosi vicini da alcuni titoli di James L. Brooks, a distanza di trent’anni (Voglia di tenerezza) o di venti (Qualcosa è cambiato) è il tocco, leggero e tragico allo stesso tempo, che è proprio del cinema di Rob Reiner e che gli consente ancora oggi di osservare attraverso lo stupore di un percorso di formazione oppure filmando lo svuotamento e le sconnessioni della memoria nel periodo del declino, lo stretto legame, bellissimo e terribile, tra la vita e la morte.