venerdì, Dicembre 20, 2024

Melancholia di Lars Von Trier: Se son di umore nero allora scrivo, frugando dentro alle nostre miserie

“Se son di umore nero allora scrivo, frugando dentro alle nostre miserie…” (F. Guccini)

Il cinema di Von Trier è un equilibrio impossibile, una percorso che oscilla (spesso oltrepassando il limite) tra genio e provocazione, innovazione e manierismo, sincerità e superbia, affezione e cinismo. Reinterpretando e adattando i generi cinematografici (in questo caso, il disaster film) a suo uso e consumo, qui come altrove il regista danese studia le reazioni umane ad un intervento esterno disturbante per tracciare un’antropologia della società contemporanea, messa a nudo tramite una distruzione dei rituali ed una violazione dei tabù. Cinema eversivo, che sviscera, ma in cui spesso il gusto per lo svisceramento prevale sugli effettivi risultati a cui si perviene. Nella storia delle due sorelle, Justine e Claire, l’incontro-scontro innesca una distruzione ed una progressiva rarefazione delle forme di organizzazione sociale. La malinconica Justine non riesce, pur sforzandosi, ad adeguarsi ai rituali e ai legami che le vengono imposti, e nei confronti dei quali prova un evidente disagio (cos’è la malinconia se non il desiderio di evadere dal proprio contesto spazio-temporale?). Claire, al contrario, in quegli stessi rituali tenta pervicacemente di creare reti affettive trovandosi, all’arrivo di Melancholia, impreparata nello scoprire la vanità di tutto ciò.
Protagonista assoluta del film è la depressione, ossessione che il regista riesce, qui più che mai, a mettere in scena nella sua potenza annichilente e distruttrice. Lirica e romantica, nel senso ottocentesco del termine, la fine del mondo incombe come in un “The tree of life” al contrario. La stupefacente (in senso letterale) ouverture iniziale, accompagnata appunto dal “Tristano e Isotta” di Wagner, introduce al presepe sociale “festeniano” della prima parte del film, ma soprattutto ha una funzione di distanziamento, come del resto la rigida suddivisione in capitoli e l’uso espressivo di luce e colore. Da buon brechtiano, Von Trier cerca lo sguardo critico, lo spettatore distaccato. All’estetismo onirico dei ralenti delle prime immagini si contrappone, stilisticamente, lo sfibrante stile registico del film. Von Trier sembra non aver capito che realismo non vuol dire disprezzo della grammatica cinematografica: steadicam nervose, scavalcamenti di campo, stacchi di montaggio casuali e asincronici, autofocus, zoomate, sono tutti artifici che sicuramente hanno avuto la loro funzione di rottura quindici anni fa, ma che nel frattempo sono stati largamente assorbiti dal cinema mainstream. Tanto rumore per nulla.
Il problema maggiore del film, però, è un altro: Von Trier indaga la natura umana senza lucidità. La sua ricerca antropologica viene, man mano che si avanza nella narrazione, spogliata di ogni connotato sociale, economico, politico, per abbandonarsi a simbolismi e misticismi spesso sfocati e di dubbia efficacia (tendenza che nel precedente Antichrist è stata marginata ancora peggio, rovinando un film altrimenti interessante). A questa carenza analitica, però, fa da contraltare una forte sincerità di fondo, e lì sta la magnificenza del film: Justine, palese alter-ego di Von Trier, non cerca compassione, non pensa di essere migliore né peggiore di nessuno, non rifiuta gli altri per scelta, e neanche è priva di affetto. Personaggio forse cinematograficamente un po’ sterile, la Kirsten Dunst di Melancholia, meritato premio per la migliore attrice, è sicuramente una delle migliori incarnazioni cinematografiche della depressione. Il caos di Von Trier non è un gioco al massacro, come in certo cinema contemporaneo: è una confessione, dolorosa e sofferta, un malessere che ha le sue radici nella natura umana, nella natura cosmica, nell’eterno e vuoto ciclo della vita e della morte. Tutto il film è un tentativo di intellettualizzare e sublimare artisticamente questo sentimento, una ricerca fallita di una verità che forse non c’è, un percorso necessario e lodevole, a prescindere dagli esiti finali. Tra le righe, si intravede il Von Trier più autentico, l’uomo che si atteggia a genietto.

Raffaele Pavoni
Raffaele Pavoni
Raffaele Pavoni (Piombino - LI, 15/04/1987) si è laureato in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo nel 2008, e ha ottenuto il diploma CESCOT di Tecnico Qualificato Documentarista nel 2009. Ha all'attivo documentari, cortometraggi, clip promozionali, collaborazioni con emittenti televisive e studi fotografici, partecipazioni a festival. Ha collaborato e collabora per varie testate web. Vive e lavora a Firenze.

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