“Se son di umore nero allora scrivo, frugando dentro alle nostre miserie…” (F. Guccini)
Protagonista assoluta del film è la depressione, ossessione che il regista riesce, qui più che mai, a mettere in scena nella sua potenza annichilente e distruttrice. Lirica e romantica, nel senso ottocentesco del termine, la fine del mondo incombe come in un “The tree of life” al contrario. La stupefacente (in senso letterale) ouverture iniziale, accompagnata appunto dal “Tristano e Isotta” di Wagner, introduce al presepe sociale “festeniano” della prima parte del film, ma soprattutto ha una funzione di distanziamento, come del resto la rigida suddivisione in capitoli e l’uso espressivo di luce e colore. Da buon brechtiano, Von Trier cerca lo sguardo critico, lo spettatore distaccato. All’estetismo onirico dei ralenti delle prime immagini si contrappone, stilisticamente, lo sfibrante stile registico del film. Von Trier sembra non aver capito che realismo non vuol dire disprezzo della grammatica cinematografica: steadicam nervose, scavalcamenti di campo, stacchi di montaggio casuali e asincronici, autofocus, zoomate, sono tutti artifici che sicuramente hanno avuto la loro funzione di rottura quindici anni fa, ma che nel frattempo sono stati largamente assorbiti dal cinema mainstream. Tanto rumore per nulla.
Il problema maggiore del film, però, è un altro: Von Trier indaga la natura umana senza lucidità. La sua ricerca antropologica viene, man mano che si avanza nella narrazione, spogliata di ogni connotato sociale, economico, politico, per abbandonarsi a simbolismi e misticismi spesso sfocati e di dubbia efficacia (tendenza che nel precedente Antichrist è stata marginata ancora peggio, rovinando un film altrimenti interessante). A questa carenza analitica, però, fa da contraltare una forte sincerità di fondo, e lì sta la magnificenza del film: Justine, palese alter-ego di Von Trier, non cerca compassione, non pensa di essere migliore né peggiore di nessuno, non rifiuta gli altri per scelta, e neanche è priva di affetto. Personaggio forse cinematograficamente un po’ sterile, la Kirsten Dunst di Melancholia, meritato premio per la migliore attrice, è sicuramente una delle migliori incarnazioni cinematografiche della depressione. Il caos di Von Trier non è un gioco al massacro, come in certo cinema contemporaneo: è una confessione, dolorosa e sofferta, un malessere che ha le sue radici nella natura umana, nella natura cosmica, nell’eterno e vuoto ciclo della vita e della morte. Tutto il film è un tentativo di intellettualizzare e sublimare artisticamente questo sentimento, una ricerca fallita di una verità che forse non c’è, un percorso necessario e lodevole, a prescindere dagli esiti finali. Tra le righe, si intravede il Von Trier più autentico, l’uomo che si atteggia a genietto.