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Maraviglioso Boccaccio di Paolo e Vittorio Taviani: la recensione

Chiedere a Paolo e Vittorio Taviani un’ulteriore prova del loro talento cinematografico è cosa ingiusta. Così come caricare di troppe attese l’uscita del loro nuovo film, Maraviglioso Boccaccio, libera trasposizione del Decameron e, in particolare, di cinque novelle. Dopo l’ennesima legittimazione internazionale conquistata con Cesare deve morire, i Taviani tornano alla regia affrontando un nuovo capitolo di quel rapporto tra cinema e letteratura che è alla base del loro percorso artistico. Una coerenza che sorprende (in verità non molto se si conoscono bene gli intenti dei due registi), visto che da cinquanta anni a questa parte l’ispirazione letteraria è il pretesto per analizzare e comprendere il presente. Nell’alveo della classicità e della tradizione i Taviani cercano il senso morale per spiegare l’attualità: da questo presupposto nasce Maraviglioso Boccaccio, partendo proprio da uno dei testi fondamentali della nostra letteratura: nella Firenze di metà Trecento dieci ragazzi, tre uomini e sette donne, fuggono dalla peste che divora la città e si rifugiano in una villa di campagna. Qui trascorreranno due settimane, imponendosi regole ferree e raccontando ognuno, ogni giorno, una novella che rispetti un argomento scelto tutti insieme.

Come in Kaos, film del 1984 ispirato all’opera di Pirandello, la scelta dei Taviani cade su cinque novelle: La novella di Messer Gentil de’Carisendi e Monna Catalina, Calandrino e l’elitropia, l’amore tra Ghismunda e Ghisardo contrastato dal padre di lei, il duca Tancredi, La badessa e le brache del prete, Federigo degli Alberighi. Ogni storia ha la funzione di rafforzare il legame tra i dieci ragazzi e di aprire profonde riflessioni che li renderanno più consapevoli e più forti per affrontare la drammatica realtà.

L’impianto del film rispetta il testo letterario e apre un’altra fase del classicismo tavianeo: la compostezza della rappresentazione scenica si basa sulla forte contrapposizione tra il caos e la cupezza che regnano a Firenze e l’armonia della villa in campagna. Al mondo esterno, ingovernabile e pauroso, fa da contraltare il mondo chiuso all’interno del quale i ragazzi costruiscono una realtà ideale, che non nasconde le problematiche ma trova le soluzioni per superarle.

La regia dei Taviani è fluida e facilmente riconoscibile, con un lavoro costante sull’espressività e sulla poeticità dell’immagine (ancora una volta nel loro cinema gioca un ruolo fondamentale il paesaggio). Una parte rilevante è lasciata all’introduzione, che delinea il dramma delle peste, i turbamenti interiori dei protagonisti e la decisione di fuggire per provare a tornare a vivere. Non è una fuga quella dei ragazzi, casomai è un tentativo di ricostruire quello che la peste si è portato via. E se i momenti di raccordo tra una novella e l’altra hanno una duplice funzione, quella di evitare la struttura del film a episodi e quella di concentrare l’attenzione sui dieci novellatori, spunti interessanti nascono dalla rappresentazione delle novelle, nelle quali i grandi temi del film emergono in tutta la loro evidenza.

La peste della Firenze trecentesca è la peste morale che attanaglia il nostro presente e alla crisi dei valori si contrappone il nuovo ordine creato dai dieci ragazzi che, attraverso la lezione del passato, attraverso il rispetto della natura e del prossimo, attraverso l’amore per la letteratura, aspirano a una nuova rinascita. Esiste una speranza, sembrano dire i fratelli Taviani. Una speranza incarnata dalle nuove generazioni, che hanno gli strumenti superare la crisi del presente. E se la prospettiva ideologica è del tutto svanita, se anche il senso del bello vacilla di fronte all’orrore della realtà, è l’amore, in tutte le sue molteplici forme, a segnare il punto di partenza per un riscatto morale. Lo spiraglio è in mano ai giovani. Alle vecchie generazioni rimane il compito di indicare la strada. E i Taviani si fanno custodi di questo passaggio che deve condurre alla costruzione di una nuova idea di società.

Un’ultima considerazione: di fronte a una rappresentazione cinematografica del Decameron è naturale sollevare il paragone con il film di Pier Paolo Pasolini. In realtà, però, l’obiettivo dei Taviani è totalmente diverso: se Pasolini ha esaltato lo spirito libertario dell’opera di Boccaccio, aprendo uno squarcio nell’ipocrita moralismo della nostra cultura, Paolo e Vittorio Taviani prediligono la strada del classicismo rispetto a quella della sovversione: dalla stessa matrice letteraria sono nati due progetti differenti, entrambi perfettamente coerenti con il percorso artistico dei registi.

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