Con “Marguerite e Julien”, Valérie Donzelli decide di adattare una sceneggiatura scritta originariamente nel 1973 da Jean Grualt per Francois Truffaut, destrutturando le barriere temporali, mescolando visioni di epoche diverse, per restituire una dimensione che dal castello della leggenda sfocia nei labirinti della tragedia.
La storia, che si ispira a una vicenda realmente accaduta, quella di Julien e Marguerite de Ravalet, figli del signore di Tourlaville, decapitati nel 1603 per adulterio e incesto, vaga tra incroci filmici e attimi atemporali in cui antico e moderno duellano tra loro, mentre una certa attitudine pop, ravvisabile anche nell’uso di una colonna sonora contemporanea, fa capolino tra le maglie di una narrazione in bilico tra realtà deformata e “favola” senza tempo.
Agendo per anacronismi formali, come il cartello iniziale “c’era una volta” seguito da un elicottero, mentre una narratrice narra la storia dei due amanti impossibili alle bambine di un orfanotrofio, il quinto lungometraggio della Donzelli gioca dunque tra diverse forme di racconto, cercando di far emergere interpretazioni trasversali, anche se troppo spesso queste vengono forzate fino al paradosso.
Il film vive di meta-proiezioni visive, come quella dei fratelli ancora bambini che recitano una piéce teatrale doppiando le battute di un film, di numerosi rimandi cinematografici e letterari che sfociano con forza nell’apocalittica scena finale in cui istanti naturali distorti da filtri deformanti s’incastonano nella recitazione di una poesia di Walt Whitman.
Nella sfarzosità dall’animo camp delle immagini, nei rallenty, negli stop frame e nella recitazione (Julien è interpretato da Jérémie Elkaïm, anche co-sceneggiatore, e Marguerite da Anaïs Demoustier) fatta più di silenzi da abbandonare alle azioni, la Donzelli consegna un film complesso e atipico, che forse pecca di poca leggerezza nella messa in scena e di poca forza poetica nell’approccio rispetto ai sui precedenti lavori.
In questo quadro manierista, melodrammatico e un po’ naïf, il film ha dalla sua parte il coraggio di portare sullo schermo un argomento difficile e scomodo, in un certo senso trasfigurandolo nel concetto di un amore universale, quasi annullando l’idea stessa dell’incesto, difficile da sostenere, che vive nonostante tutto nella follia del destino, nell’ordine naturale delle cose, nella vita e nella morte.
Un film fatto di spiriti, di anime che in fondo non esistono, forse più da percepire con la mente che da guardare con gli occhi.