Ispirato alla saga scritta da James Dashner, “The Maze Runner” è il debutto dietro la macchina da presa di Wes Ball, la cui carriera si è sviluppata fino ad oggi nell’ambito degli effetti speciali. Il bacino della letteratura per adolescenti a cui attinge per il suo primo film è quindi lo stesso da cui provengono i romanzi di Suzanne Collins ed esattamente come in Hunger Games lo scenario è quello della distopia fantascientifica che ha consentito a Gary Ross e poi a Francis Lawrence di miscelare action, fantasy, horror e fantascienza. Limitato da un set circoscritto, Ball riduce questi elementi al minimo e sposta lievemente l’attenzione verso il racconto survivalista, tra “lord of the flies” e “The village”, così da mantenere un’innegabile tensione almeno fino a quando il film, separando la radura da quello che rimane del mondo esterno, si gioca le carte principali proprio sulla riduzione dell’orizzonte visibile e sulla forma intangibile di un’infinita e ripetibile attesa.
Calandoci sin dall’inizio in uno spazio claustrofobico, Ball segue il viaggio di Thomas (Dylan O’Brien) dentro un ascensore fino a quando non emergerà in superficie, dentro una “scatola” posizionata al centro di una radura; alcuni ragazzi lo attendono e dopo averlo schernito lo aiutano a salire, il primo approccio è del tutto tribale, come se si trattasse di un ingresso in società; Thomas si trova in uno spazio gestito da “I custodi”, una micro società di adolescenti, giunti in quel luogo attraverso la scatola, esattamente come lui. La “tribù” vive ai piedi di una grande struttura di pietra e metallo, il labirinto, che separa lo spazio naturale da un ipotetico mondo esterno di cui non hanno memoria, perchè tutti i ragazzi che sono giunti nella radura, non ricordano niente del loro passato.
Organizzati secondo una gerarchia molto precisa, lo scopo è l’autoconservazione e il tentativo di comprendere la ragione della loro esistenza; mentre pensano all’organizzazione sociale di tutti i giorni, alcuni di loro, i velocisti, entrano nel labirinto quando questo dischiude improvvisamente le porte e lo mappano fino a quando è possibile; ma il labirinto ha due caratteristiche, quella di mutare durante la notte, spostando pareti, strutture, intercapedini e passaggi, e sopratutto la presenza dei “dolenti”, aracnidi giganti dalla struttura biomeccanica, che con una chiave-sensore controllano le configurazione dello stesso labirinto.
Se da una parte Ball sviluppa la prima parte sulla collisione di questa piccola società organizzata con un mistero inestricabile scommettendo tutto su una science fiction astratta, non così distante da certe distopie anni ’70, nella seconda sostituisce i conflitti interni al gruppo con una quest orrorifica, puntando tutto sullo scontro tra i ragazzi e i dolenti, modellati sul sembiante di predator, e rinunciando anche agli unici momenti un po’ più vitali, quelli dove la forma mobile del labirinto ci mostra un set che collassa su se stesso, cambia costantemente forma e si avvicina timidamente alla relazione tra spazio, corpi e set virtuali nel cinema della nuova hollywood.
Del resto, “Maze runner” mostra la corda proprio quando si avvicina alla forma più “politica”, rivelandosi a poco a poco in tutta la sua dimensione trattenuta, tiepida e imitativa non solo rispetto al franchisee di Hunger Games ma scivolando in un’improbabile parodia di tutto il cinema che sta alla base di questi prodotti, da Logan’s Run in poi.