Home alcinema Medianeras – Innamorarsi a Buenos Aires di Gustavo Taretto: la recensione

Medianeras – Innamorarsi a Buenos Aires di Gustavo Taretto: la recensione

Proprio mentre in Argentina esce Las insoladas il secondo lungometraggio diretto da Gustavo Taretto, in Italia si è pensato di distribuire il suo primo film uscito tre anni fa per i soliti imperscrutabili percorsi strategici o forse per l’assenza di una vera e propria strategia. Medianeras si apre sulla geografia architettonica di Buenos Aires, una descrizione dei complessi abitativi nati dalla sovrapposizione incongrua tra diversi stili, applicati come soluzione alla sovrappopolazione ma anche per una concezione che lascia sempre meno spazio alla comunicazione tra individui; le parole sono quelle di Martin (Javier Drolas), web designer che vive la sua vita sigillato in casa, sempre connesso alla rete virtuale e funzionalmente inserito in uno di questi appartamenti concepiti come “scatole da scarpe”, parte di quella cultura abitativa che ha configurato la città degli ultimi decenni.

Nell’edificio di fronte vive Mariana, interpretata da Pilar Lopez De Ayala, la Angélica di De Oliveira e sempre in tema di geografia urbana, il personaggio femminile della Flânerie di Jose Louis Guerin, En La Ciudad de la Sylvia.
Mariana è un architetto che non riesce a trovare sbocchi adeguati ed è costretta a lavorare come visual designer per le vetrine dei negozi di moda. Dopo una storia di quattro anni finita male, anche lei si è isolata nello spazio del suo appartamento, vivendo di piccole ossessioni esattamente come Martin.

Taretto parte da qui per costruire un poema visivo legato alla relazione tra individui e spazio architettonico, inquadrando gli agglomerati di Buenos Aires come se fossero parte di una mappatura anti-emozionale ma allo stesso tempo un complesso disegno estetico che il cineasta argentino filma con un certo compiacimento stilistico, grazie alla fotografia di Leandro Martinez ma anche alla trasformazione di alcune immagini in brevi sequenze di animazione, quasi per esaltarne l’aspetto più esplicitamente visuale. È uno sfondo che gli serve per consentire ai suoi personaggi di elucubrare sulla propria condizione, utilizzando il loro racconto interiore come una voce off che disgiunta dal flusso di coscienza personale diventa contrappunto per una narrazione di secondo grado, a commento dello sviluppo della città, come se scambiasse continuamente le storie intime dei suoi personaggi con un documentario sulla storia collettiva di Buenos Aires.

Ecco che allora si susseguono le considerazioni sulla società moderna, sulla città infestata dai cavi, sulla tecnologia wireless, sulle linee cellulari che hanno sostituito la complessità della lingua con un linguaggio contratto, primitivo e “gutturale”, quello della comunicazione inter-relata. In questo contesto Taretto costruisce quindi una serie di situazioni ai limiti dell’assurdo dove la casualità gioca un ruolo predominante; Martin e Mariana non riescono ad incontrarsi, se non casualmente e senza conoscere niente l’una dell’altro, come nel surreale incidente che coinvolge un cane e due persone, sequenza enigmatica poi spiegata da Mariana con l’assurda causticità di un racconto di Julio Cortazàr.

Quando entrambi decideranno di aprire una finestra nei loro rispettivi appartamenti, lo faranno illegalmente, almeno secondo il piano regolatore della città, trovandosi improvvisamente con uno spiraglio di luce a testa, aperto sugli enormi cartelloni pubblicitari a copertura della facciata dei rispettivi palazzi. La finestra di Martin è collocata proprio sotto lo scroto di un gigantesco modello in mutande, uno dei tanti segni del gusto visivo di Taretto, impegnato in ogni inquadratura a cercare un senso, oppure il bello nell’orrore di cemento e metallo. Del resto entrambi i personaggi sono completamente assorbiti dalla presenza delle strutture architettoniche; basta pensare alla fuga di Mariana dall’enorme palazzo con ristorante all’ultimo piano, oppure la perdita di tutte le coordinate all’interno del planetario.

Il secondo incontro casuale tra i due sarà durante una chat, ma un calo di tensione in tutto il quartiere non consentirà di portare a buon fine l’approccio virtuale, e mentre la comunicazione connettiva divide, il primo scambio emotivo nascerà attraverso le note di True Love Will Find You In The End; mentre Martin lo ascolta, Mariana può sentire la voce di Daniel Johnston dal suo appartamento; è l’inizio di uno scambio emotivo e sensoriale che si concluderà positivamente attraverso un’epifania visiva, dalla finestra di Mariana.

Gustavo Taretto costruisce il suo lungometraggio di debutto basandosi su un corto del 2005 con lo stesso titolo, dove alla contrapposizione tra la vita di campagna e lo sviluppo della città, sostituisce una scansione temporale divisa per stagioni nel solo spazio urbano, oscillando tra raccontino morale, documentario sulla storia architettonica di una città e gusto per la gag alleniana, con tanto di citazione devozionale da Manhattan. E forse a non convincere del tutto è proprio questa volontà programmatica di costruire un cinema poetico, a tratti decisamente didascalico, con una continua sovrapposizione tra immagini ed enunciazione, quasi a  voler a tutti i costi imporre un senso morale a quello che stiamo guardando, senza cedere per un attimo all’ambiguità della città, spazio mostruoso in cui potersi (anche) positivamente perdere.

Exit mobile version