Il primo canto a cui Kechiche dedica ben tre ore, sintetizza le molteplici sfumature degli anni giovanili di Amin, giovane sceneggiatore che vive a Parigi tornato nel paese d’origine sul mar Mediterraneo, tra Marsilia e Nizza, laddove ritrova famiglia e amicizie di un tempo e dove riemergono la sensualità e il languore di “Cous Cous”.
Il tempo che si dilata durante la calda estate costiera subisce lo stesso trattamento anche nel cinema di Kechiche, il quale torna con leggerezza e amore a raccontare una storia di anime fuori posto, senza mai porre la falce del giudizio avanti a tutto, come sempre stringendo i suoi personaggi in un caldo abbraccio di comprensione e rispettosa distanza.
Amin è come Saartjie Baartman, la ragazza ottentotta di “Venere Nera” (2010) o come la Adele di “Blue is the Warmest Colour” con lo sguardo perso in un mondo che non riesce a codificare come gli altri, o meglio che riesce a interpretare con mezzi differenti.
Per Amin quei mezzi sono la fotografia e il cinema, chiavi di lettura più complesse e stratificate rispetto a quelli dei suoi coetanei, immersi nella leggerezza e nella felice promiscuità tipiche della gioventù, aspetti ai quali non riesce ad adeguarsi, sempre alla ricerca di quella tenerezza dei volti, in particolare quello di Ophélia, ragazza dai tratti facciali dolcissimi in contrasto con le forme burrose e generose del suo corpo.
Quell’aspetto che Amin cerca di cogliere disperatamente in Ophélia, anche grazie ai suoi scatti che trasfigurano ed elevano la sua figura, è una traccia che irrimediabilmente si perde e non riesce mai a trovare una connessione reale.
Ophélia è troppo distante da Amin, come dal suo fidanzato Clément confinato su una piattaforma a largo del mar del Golfo (siamo nell’agosto del 1994, il conflitto non è terminato da molto); persa nella vorticosa e instabile relazione con il cugino scapestrato di Amin, Tony, perde anche il contatto con il suo lato più tenero, quello della cura che applica nell’allevare le pecore della fattoria di famiglia.
La natura qui fa il gioco di riportare i toni rumorosi e spensierati delle discoteche frequentate da Amin e i suoi amici, allo stadio più primordiale: il parto delle pecore nella fattoria sono l’occasione per Amin di fermare il tempo con le sue istantanee e per Kechiche per intonare un inno alla purezza della vita nel suo stato aurorale.
Non è concetto nuovo nella cinematografia di Abdellatif Kechiche quello di avvicinarsi alla natura dei corpi senza alcun tipo di censura, anzi ponendovi uno sguardo attento, tra fisiologia e poesia. Per questo i corpi intrisi di sudore di Ophélia e Tony che fanno l’amore hanno lo stesso peso e significato dei piccoli nascituri della fattoria di pecore.
La scrittura in “Mektoub, My Love: Canto uno”, come in altro cinema di Kechiche (per Adele la scrittura era un diario privato, porta di accesso al suo mondo inespugnabile) è il deus ex machina che detta il destino, il “mektoub”: ciò che vi è scritto dovrà irrimediabilmente accadere, per questo il film è pervaso da un senso forte di predestinazione, che tiene in mano la sorte dell’incontro di Amin con Charlotte, la ragazza che si scoprirà vicinissima al suo spirito, più chiuso e sensibile a certi stimoli.
Amin non si lascia irretire dai corpi peccaminosi delle ragazze che vorrebbero sedurlo, per lui il sesso non è la chiave giusta di accesso al suo cuore, nessuna di queste è infatti destinata a trovare una reale connessione con lui.
Il suo sguardo è però rapito dalla bellezza e dal senso di assoluta libertà di quei corpi stretti in vestiti leggerissimi e persi in sfrenate danze, riti di esibizione e di liberazione, segno ancora una volta dello sguardo amorevole di Kechiche nel dipingere l’imponente vitalità dei suoi personaggi, dotati ognuno delle proprie ragioni, tutte valide e possibili nell’ottica di uno sguardo vero e non giudicante sulle cose.