– Quando la casa è in fiamme, si dimentica il pranzo.
– Sì: ma lo si va a riprendere nella cenere.
(Nietzsche, Al di là del Bene e del Male)
10.000 esecuzioni capitali per reati legati allo spaccio e al consumo di stupefacenti, inflitte dal 1988 fino al 2017, hanno condotto ad un ripensamento delle logiche di contrasto anche un regime ferocemente proibizionista come quello iraniano, soprattutto in virtù di un’equazione che conosciamo bene: mentre il consumo cresce vertiginosamente attestando una “libera” e assoluta circolazione delle sostanze proibite per legge e del mercato che le regola, la lotta dura al narcotraffico colpisce soprattutto consumatori, dropout, pesci di piccolo calibro, ad un costo altissimo in termini economici e per quanto riguarda l’Iran fino a poco tempo fa, di vite umane. La pena di morte non è certo stata depennata dai codici della repubblica islamica, ma l’emendamento entrato in vigore a fine 2017 ha sensibilmente aumentato i livelli di modica quantità per quanto riguarda il possesso di droghe, riducendo quasi a zero le pene capitali destinate ai consumatori e limitando le condanne a chi gestisce traffici consistenti a vario titolo.
Il secondo lungometraggio di Saeed Roustaee è interessante anche per questo motivo, perché si incunea in un contesto legislativo che ha subito alcune trasformazioni negli ultimi due anni, senza ridurre il violento e intimidatorio contrasto tra stato “educatore” e individuo, dove il secondo diventa attore principale di quella spaccatura sociale creata da un crescente e inarrestabile divario economico tra elite di potere e popolazione. Lo spacciatore, individuato come genesi del problema è in realtà parte di questa stessa catena e intraprende un percorso criminogeno perché non ha altre alternative di sopravvivenza.
I sei milioni e mezzo del titolo, citati con sarcasmo da Samad, il poliziotto della narcotici interpretato da Payman Maadi, si riferiscono alla crescente popolazione di tossicodipendenti, una piaga contro la quale la forza bruta non ha contribuito con alcun risultato rilevante. Mentre l’esternazione di quel dato può condurre dalle parti di una moralistica filosofia del recupero, descrive in realtà le statistiche di un fallimento, dal momento in cui Roustaee decide, sin dai primi tesissimi minuti del film, di seguire una lotta feroce che non conduce da nessuna parte.
Il senso del film è in qualche modo già determinato da quello scherzo del destino che intrappola un piccolo spacciatore dentro la buca di un cantiere. Samad e il collega Hamid (Hooman Kiaie) continuano a cercarlo dopo un inseguimento furibondo tra i vicoli della suburbia, quasi una scusa per penetrare con il dinamismo del dispositivo la povertà che innerva le arterie nascoste della città, un cortocircuito tra action e flagranza documentale che è già chiaro in tutta la sezione che precede la corsa a perdifiato, quella della retata che condurrà in carcere una legione di tossici derelitti, ammassati sopra e dentro i grandi tubi di un’area industriale dismessa.
Per sfuggire ai due poliziotti, lo spacciatore nella fossa, non visto, sarà sepolto dalla terra spinta dall’escavatore che lo sovrasta. Sequenza brutale e allo stesso tempo filmata da una distanza raggelante, determina tutto l’andamento di “Just 6.5″
Sono numerose le sequenze in cui i due poliziotti violano proprietà private, entrano in case-cortile che sopravvivono all’espansione urbanistica degli ultimi decenni, utilizzano strumenti intimidatori contro la metà più indigente della popolazione.
Lo spazio del dialogo, quello che anima tutta la storia del cinema iraniano e dove passa un intero campionario di diversa umanità, sostituisce completamente la tradizione e il sistema famigliare con i luoghi del carcere, discarica sociale dove il diritto è assente.
Roustaee, che con il precedente Abad va yek rooz si avvicinava alle classi più povere della Teheran contemporanea, continua il suo percorso nella città invisibile, quella che non può più comunicare con la società civile, lavorando soprattutto sulla mancanza di empatia e partecipazione come conseguenza di uno sviluppo economico ed urbanistico che negli ultimi decenni ha determinato il crollo fisico dello spazio di condivisione tradizionale. Questa dimensione viene ricreata, per paradosso, nel carnaio di una prigione senza celle individuali, un lager dove qualsiasi distinzione viene annullata.
Lo spazio detentivo diventa luogo di continui rovesciamenti, perché annulla il confine sottile tra popolazione ristretta e personale carcerario, tutti accomunati da un sistema penale che da un momento all’altro può spalancare indiscriminatamente le braccia. Su questo scambio Roustaee insiste attraverso i mezzi di un cinema fisico, anche quando sceglie un punto di vista più ellittico.
Sulla figura di Nasser, lo spacciatore interpretato da Navid Mohammadzadeh, imposta l’evoluzione di un personaggio negativo, continuamente disattesa dalle testimonianze private. Mentre la funzione del racconto segue il fiuto dei segugi, il loro punto di vista subisce alcune interferenze, rovescia le attese, disvela una storia di dolore che è anche resistenza civile.
“Just 6.5” non lascia per un attimo la soggettiva della legge, anche quando vengono preparate quelle grate di cui ancora non conosciamo la funzione.
Nella simmetria dell’esecuzione capitale, come nel Kieslowski del Decalogo 5, c’è la proporzione di uno sguardo vendicativo, un controcampo continuo che oppone Samad a Nasser, ma anche una co-appartenenza drammatica, che Benjamin avrebbe espresso con il concetto di “porosità” tra esterno e interno, storie individuali e quelle di un’intera collettività.