Con ‘Metro Manila’, il titolo di questo film del 2013 vincitore quello stesso anno dell’Audience Award al Sundance e in arrivo solo ora in Italia, s’intende l’area metropolitana di Manila, un vero e proprio mostro a più teste – la capitale delle Filippine e altre sedici unità urbane che vi dipartono – che inghiotte milioni e milioni di vite nella frenesia spersonalizzante della megalopoli.
È qui che Oscar Ramirez, un giovane agricoltore sposato con Mai e padre di due figlie piccole, si trasferisce quando è costretto, dall’indigenza, a lasciare le risaie dove lavora da sempre. Storia semplice di un uomo semplice che dalla campagna va in città in cerca di una fortuna che non troverà, ‘Metro Manila’ è un film affascinante per contesto e paratesto: non sono molte le opere che esplorano una società, quella filippina, ribollente per sincretismo culturale, complessità politica e ibridismo post-coloniale, affatto pacificata nella sua eterna frustrazione economica e nella persistenza di una grammatica di corruzione.
Il regista Sean Ellis, è, inoltre, un britannico originario di Brighton che ha realizzato il film in una lingua, il tagalog, che non conosceva e in un paese che aveva visitato una sola volta prima di eleggerlo a set di quello che è, a ben guardare, un thriller ‘parabolico’, racconto morale di un uomo buono che prima rifiuta e poi accetta le logiche criminali per provare a salvare la sua famiglia dalla povertà.
Ed è proprio con una parabola che il film si chiude: quella di Alfred Santos, un disperato che rapinò, minacciandoli con la pistola, i passeggeri di un aereo in volo prima di buttarsi con lo stesso paracadute con il quale si sarebbe poi schiantato.
Il piano di Santos fallì – spiega Oscar in una lettera alla moglie – perché era un piano basato sui sogni, mentre il suo veniva ora dettato dall’angoscia e la consapevolezza di non avere alternative. La visione non manca di essere semplicistica, ma pur nel timbro moraleggiante, c’è qualcosa di struggente perché espressione di un cinema che, ancora una volta, con abnegazione indefessa, prova a disinnescare l’automatismo di lettura e a scoperchiare la brutalità dell’atto crudele e banditesco per rivelarne l’umanità e il movente virtuoso, la seduzione del riscatto che passa attraverso l’illecito, il tentativo, goffo, esasperato, autolesionista, di levigare lo scabro dell’esistenza miserrima con i mezzi divenuti estremi per ineluttabilità e non per scelta.
‘Metro Manila’ è, così, un film sì convenzionale, ma, in fondo, sincero nelle intenzioni, con alcuni momenti di alta poesia visiva: la bambina più grande dei Ramirez che guarda rapita una cucciolata di gattini neonati da cui uno si separa per rotolarsi cieco e smilzo sul suolo; Oscar e Mai che allungano le loro braccia intrecciate per farsi attraversare dall’acqua corrente con il godimento ineguagliabile di chi si fa una doccia dopo molte, troppe, privazioni.
Sean Ellis sa toccare tutte le corde, quelle più esposte e quelle più riposte, gli appetiti adrenalinici e gli aneliti delicati, costruendo, con grande equilibrio registico e senza ombra di ricatto emotivo, un’opera non memorabile, ma tuttavia meritevole del nostro sguardo più indulgente e partecipe.