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Miss Julie di Liv Ullmann: la recensione

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Dimmi che mi ami altrimenti non sono niente
E’ quasi un urlo quello di Miss Julie (Jessica Chastain) a John (Colin Farrell), l’ultimo uomo a cui chiedere amore.
Siamo al passaggio esatto dalla prima alla seconda ora del film, una simmetria costantemente cercata ad esorcizzare la profonda asimmetria delle situazioni in cui i personaggi si muovono. Dell’ininterrotto scambio verbale fra i due protagonisti quella frase è il momento più rivelatore.
Nella sua elementare semplicità dovrebbe ricondurre a sintesi gli opposti, ricucire lacerazioni in atto, rendere possibile il varco del muro. E invece è il punto in cui la strada si fa strettoia impraticabile e si capirà che i destini divergono, le gabbie restano chiuse, i ruoli sociali, i condizionamenti psicologici, il disamore imperante sono destinati a rimanere tali.

Trasposizione cinematografica del dramma Fröken Julie del drammaturgo svedese August Strindberg, passaggio non nuovo dall’opera teatrale al film (Alf Sjöberg, Palma d’Oro al Festival di Cannes 1951, Mike Figgis con la sua versione del 1999) Miss Julie di Liv Ullmann sa come usare codici prettamente teatrali in chiave cinematografica e nell’accurata ricostruzione filologica del testo innervare una complessa stratificazione dei piani di lettura.

Il “naturalismo sociale” di Strindberg, che vedeva nei comportamenti sociali il rigido riflesso della classe di appartenenza e la deterministica condanna a sottostare al dominio dei rapporti economici, si arricchisce, nel processo di significazione cinematografica, di sfumature che nella centralità fisica e psicologica di Julie trovano il loro punto di irradiazione. In una rigorosa unità di tempo, luogo e azione, fra Miss Julie, la baronessina, il servo John e la serva Kathleen si consuma un gioco crudele e compulsivo. Sullo sfondo, invisibile, il Barone e il coro sguaiato dei contadini che fanno baldoria. E’ la notte di San Giovanni, notte di mezza estate, quando in paese si balla e tutte le barriere sociali dovrebbero cadere.

E infatti cadono, fragorosamente, lasciando macerie.

Dal prisma sfaccettato e inafferrabile della personalità complessa di Julie, impregnata di connotazioni conflittuali, destinata ad implodere su sé stessa, nasce una lingua di collisione che in John, l’antagonista, troverà la sponda adatta per un gioco al massacro di breve durata, lo spazio di una notte, ma non per questo meno catastrofico.

In bilico tra realtà e sogno, a connotare l’atmosfera è l’ambiguità che nasce dall’intreccio convulso di vite irrisolte, tese allo spasimo, l’una, quella di Julie, nel rifiuto della propria solitudine, l’altra, quella di John, nella velleitaria ricerca di una condizione sociale diversa.
Per entrambi si profila la sconfitta. Per Julie sarà il cupio dissolvi in cui abortiranno i suoi tentativi di riappropriarsi dell’amore di cui è stata privata fin da bambina da una madre anaffettiva e indifferente, morta ben presto. Per John la sconfitta sarà la sostanziale paura di sollevare il capo dalla sua condizione d’inferiorità. Nessuna via di fuga è possibile, e non solo perchè ferree regole sociali incombono sui destini individuali con il loro chiuso determinismo e tabù atavici soffocano ogni spinta vitale. C’è una parte di noi, sembra dire lo sviluppo della vicenda, che si volge contro noi stessi costringendo la realtà a ribaltarsi nel suo contrario. E’ uno stridore, come di brusca frenata, proprio là dove sembrava si stessero aprendo spazi di luce e di speranza.

Julie e John veleggiano in un mare in tempesta come barche alla deriva per incontrarsi e poi immediatamente scontrarsi.
La dolcezza iniziale dell’incontro, il gioco seduttivo messo in atto da Julie e accolto da John dopo lunghe titubanze, si lacera ben presto nella durezza dello scontro. Il fertile conflitto tra spettacolo e pubblico, atto fondante del teatro fin dal suo nascere, si realizza allora nello scarto asimmetrico.

Nell’arco di una notte i tre personaggi (la parte di Katlheen, interpretata da Samantha Morton, benchè secondaria non è meno intensa) vivono un’esperienza definitiva in cui passato e futuro sembrano raccogliersi e indicare il destino di ognuno. Ognuno dei tre arriva al limite di sé stesso, denudandosi di ogni maschera possibile. Il prezzo per Julie sarà molto alto, la sua ricerca di amore l’ha spinta verso un uomo troppo diverso, troppo schiavo della sua condizione. John non può essere altro da quel lacchè che pulisce gli stivali al Barone. Eppure, anche se per poco, è stato un tenero innamorato che raccontava di quando spiava Julie bambina nel giardino delle rose.

E cosa può essere la rozza Kathleen più della cuoca che regna in cucina? Eppure anche lei ha momenti di rassegnata e nobile tristezza.
E dunque, chi siamo? Sembra essere questa l’angustia da cui non si esce.
Chiusi nelle gabbie di un ruolo sociale, ai servi non resta altro che piegarsi e leccare la mano del padrone?
Sa com’è il mondo visto da qui?– dice John a Julie – No, non lo sa, voi siete come i falchi che volano nel cielo e le schiene si vedono raramente, si librano lassù”.

Julie, dal canto suo, è ancora la bambina immatura e infelice che indossava gli stivaletti col tacco della madre e fuggiva verso un giardino di sogno che l’accoglieva nel tronco del grande albero al centro della scena, un ritorno all’utero materno in un luminoso en plein air.
E la luce diurna, meridiana, sarà sempre viva, anche se è notte, a rendere irreale lo spazio claustrofobico, chiuso fra le pareti della cucina, dove si svolge tutto il dramma, con la sola eccezione della stanza di John dove si consuma un amplesso frettoloso e disturbante.
E’ una delle aporie del film, Liv Ullmann sa bene quanto conti a teatro la simmetria che all’atto del guardare conferisce il valore di rito, la sua intima sacralità, e pertanto sceglie alcuni momenti topici della vicenda per marcare con accentuata evidenza la composizione scenica simmetrica di corpi ed ambienti. E’ il caso, ad esempio, del primo bacio fra i due protagonisti: John quasi trascina Julie sotto l’arco d’ingresso, la posa è pittorica, il richiamo al Bacio di Hayez evidente.

Questa divina simmetria sancita dall’arte non può però sopravvivere là dove la vita diventa una tragica danza di morte e quella che sembrava, poteva essere, un’unione d’amore, diventa una cosa sporca, che ispira a entrambi gli insulti reciproci più laidi.
Componente di primo piano e presenza attiva nella drammaturgia dell’opera è la musica, una scelta di brani celebri a cui la regista affida la possibilità di diradare il mistero del vivere: “La musica, rende visibile ciò che i nostri occhi non possono vedere, si tratta di essere coinvolti a un livello profondo, che è quello che voglio da questo film: dirci chi siamo e perché siamo sarebbe impossibile senza musica.”.

E dunque ogni elemento significativo del dramma ha il suo testo musicale di riferimento, “ Träumerei di Schumann e il secondo Piano Trio di Schubert esprimono le aspirazioni di Miss Julie, mentre il Primo Piano Trio di Arensky è la musica di John. Verso la fine del film si sente la Suite per violoncello di Bach. Si tratta di perdono, riconciliazione ”.

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