Aggeliki, undici anni, si butta giù dal balcone di casa nel giorno del suo compleanno. E’ il conto che non torna, la scheggia impazzita, il buco nel cielo di carta. E’ un fatto di cronaca, tutto è fatto di cronaca nel film di Avranas, ma la storia della ragazzina suicida è giunta all’autore che girava un altro film ed è nato Miss Violence, perché a quel punto la domanda sorgeva spontanea e impellente: “Quanto siamo davvero disposti a scoprire – o anche solo a gestire – ciò che accade dietro le tende ben stirate di una normalità ben strutturata?“. Fatte le opportune differenze, è a Kynodonthas, il capolavoro di Lanthimos, che si pensa guardando la famiglia messa in scena da Avranas: “L’insopportabile quiete della routine quotidiana è spezzata dal suicidio di una ragazzina. Simbolo di tutti quei bambini costretti a sottostare alle regole di una società dura e senza speranza, la ragazzina e il suo gesto mettono a nudo e rivelano ogni tipo di sfruttamento e di manipolazione che si compie all’interno di quel sistema che alcuni si ostinano ancora a chiamare “famiglia”, in cui un padre che impone ordini e funzioni di ogni componente esercita il proprio potere per vie non differenti da quelle usate da chi manipola la società. Mi chiedo sempre chi ha il potere: colui che colpisce o chi invece sente il dolore? La violenza più dura è quella del silenzio e del non detto.”
Come quello di Lanthimos anche il cinema di Avranas scruta nel fondo di quella fucina di tutte le contraddizioni e violenze che può essere la famiglia, a partire dall’antica reggia degli Atridi con i suoi sinistri venti di morte, e ne estrae una metafora del mondo come teatro che si apre alla recita del potere.
Una festa di compleanno, nonni, figli e nipoti sono raccolti per l’arrivo della torta. Mirtò e Aggeliki entrano in scena vestite di bianco, esili adolescenti di purezza virginale. Aggeliki compie undici anni, ha uno sguardo troppo serio e un sorriso appena accennato sulle labbra. I lunghi capelli castani scendono lisci ai lati del viso. Il nonno balla con lei e sulla parete di fondo si apre un balcone. Mentre il gruppo si prepara per la foto di rito la bambina si butta sorridendo giù nel cortile.
La ripresa dall’alto ha la cadenza lenta dello stupore inebetito, i familiari si avvicinano al corpo, non lo toccano, una macchia di sangue si allarga sul selciato, grigia come le case. Indagini dei servizi sociali e interesse della scuola a comportamenti border line dei ragazzi di casa (due bambinetti e una quattordicenne) non vanno oltre l’approssimazione svogliata dell’atto dovuto. L’intervento dello Stato si risolverà in formalità burocratiche di breve durata, la distopia nascosta sotto la patina di famiglia serena e funzionale continuerà a produrre la sua putrefazione. Il padre/nonno (Themis Panou) è figura inquietante che incombe con sorridente ferocia sulla famiglia di cui è l’unico maschio; una batteria di figli/fratelli/nipoti di cui si smarriscono genealogia e intreccio famigliare, vive prona ad ogni suo volere; una madre/nonna (Rena Pittaki), donna enigmatica di antica bellezza sfiorita, è silenziosa e assente, aspetta il suo momento e cambierà l’ordine delle cose, Erinni vendicatrice al culmine della tragedia.
Questi i membri di una famiglia che, un tassello dopo l’altro, scopriamo tranquillamente endogamica, chiusa nello spazio immobile di un appartamento anonimo in cui il controllo del maschio è totale, al punto di eliminare porte e diaframmi di qualsiasi genere. Universo concentrazionario da cui si esce solo morendo, la visione distopica della realtà in cui vive, coperta da omertà e stato di sudditanza dei membri della famiglia, si fa strada in una composizione aggressiva di scene che culmina nello stupro seguito da incesto, scena girata con la stessa agghiacciante freddezza compilatoria dell’entomologo che classifica fisiologia, comportamento e filogenesi degli insetti.
La scena iniziale sembra aver cauterizzato le risorse emotive dello spettatore, quello che accade dopo non può fare di più. Può invece aprire alla lettura dei sottostesti, lasciare alla decodifica di metafore, spingere alla ricerca di indizi lasciati lungo la strada dal regista Molto si svela, qualcosa resta inconcluso, come l’arrivo improvviso e assordante di Toto Cotugno, in veste di italiano vero, che una frettolosa conferenza stampa ha impedito di porre come domanda al regista.
Pazienza Cotugno, resta Miss Violence, un film che dice forse più di quanto fosse nelle intenzioni del regista.
Scultore e pittore di buona fama, Alexandros Avranas è passato al cinema nel 2008 con Whitout, esperimento no-budget pluripremiato al Festival internazionale di Salonicco e mai distribuito nelle sale né uscito dai confini della sua terra. Di lui non si conosce molto, ma quello che i due lungometraggi raccontano non lascia indifferenti. Miss Violence è un film crudele, di quella particolare forma di crudeltà che si annida dove non s’immagina e tenerezze di facciata coprono verità oscene.
Paesaggio famigliare che trasfigura in paesaggio sociale, propone quel rispecchiamento prismatico della vita dell’uomo che fu già del mito arcaico. Il padre che concepisce e ingoia i suoi figli, la Gran Madre che li salva e il figlio della luce, Zeus, che evira il padre feroce e fa rinascere la bellezza di Afrodite nel mondo.
Manca la terza fase nel film, al tramonto della civiltà la bellezza è fuggita per sempre.