[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#f2b818″ class=”” size=””]Sinossi: Essere un moffie significa essere debole, effemminato, illecito. Nel 1981 il governo della minoranza bianca del Sudafrica si trova a fare i conti con la guerra al confine con l’Angola. Come ogni ragazzo sopra i sedici anni di età, Nicholas Van der Swart è obbligato a svolgere due anni di servizio militare per difendere l’Apartheid, in un periodo in cui la minaccia del comunismo e il “die swart gevaar” (il cosiddetto pericolo nero) sono ai massimi della storia. Per Nicholas, tuttavia, questi non sono gli unici problemi, e sopravvivere alla brutalità della vita nell’esercito diventa un compito sempre più arduo quando fra lui e un’altra recluta nasce una relazione.[/perfectpullquote]
Quarta prova per il regista di Cape Town, seconda presentata a Venezia dopo The Endless River, interessante rivisitazione dei cinema di George Stevens ed Elia Kazan, a partire dalla scarnificazione di tutti gli elementi costitutivi. Più vicino alla dimensione sociale dei primi film, “Moffie” si connette solo in parte a “Skoonheid”, il secondo del regista sudafricano, non è quindi un passo indietro rispetto alla sperimentazione su forme e formati del racconto cinematografico praticata in tempi più recenti, soprattutto nel sovrapporre le stereotipie del melodramma ai segni materiali del décor, quasi per aprire la chiusura formale della ricostruzione storica a continui innesti percettivi e temporali.
Gli anni ottanta del Sudafrica sembrano a un certo punto gli anni cinquanta negli Stati Uniti, non un’analogia ma stratificazione della coscienza allusa dai corpi e dai gesti quotidiani, che si specchia nel formato “domestico” dell’immagine curata da Jamie Ramsay, precisa nel ricostruire l’occhio del cinema di quegli anni grazie anche all’organizzazione del profilmico e ai costumi di Reza Levy, ma anche sospesa nell’astrazione del ricordo, come accadeva nel cinema di formazione di Robert Mulligan, grazie alla fotografia di Robert Surtees quando coglieva un riflesso, uno sguardo rubato, la fessura attraverso cui anni quaranta e settanta, collassavano.
La ricerca documentale del direttore della fotografia, parte da una raccolta di immagini realizzate durante la guerra al confine con l’Angola tra i settanta e gli ottanta, quasi tutte scattate dalla prospettiva dei soldati e rivelatrici di una dimensione privata che Ramsay ed Hermanus replicano nella scelta delle proporzioni del quadro. Lenti di largo formato e i confini dell’immagine simili alla fotografia di consumo a cavallo tra i due decenni, per rimanere vicino ai corpi, agli oggetti e alla fugacità dell’istante.
La storia politica dell’Apartheid diventa allora percorso intimo che nutre la coscienza collettiva, racconto di formazione con un orizzonte negativo, dove l’odio razziale che conosciamo viene spinto ai margini, spiato dal finestrino di un treno in transito oppure rivelato nell’improvvisa apparizione di un nemico colpito a morte. Lo sguardo sul mondo viene assorbito dalla prospettiva del South African Defense Force durante l’educazione delle reclute. Nell’ambito così esclusivo della formazione maschile, la qualità simbiotica della comunità, istruisce inesorabilmente all’espulsione del diverso attraverso un processo di deumanizzazione. Hermanus coglie nel sistema militare quel confine sottile tra lotta e amplesso che separa e improvvisamente unisce i corpi nell’espressione di un desiderio negato.
Non c’è in questo senso alcun didascalismo nel raccontare il rimosso, anche lessicale, dei “Moffies”, il cui termine può derivare dal termine afrikaans mofskaap, pecora castrata, o da una distorsione urbana della parola ermafrodito. L’unico frammento narrativo che evidenzia una vera e propria persecuzione in atto è il pubblico ludibrio a cui sono destinati due commilitoni sorpresi dagli ufficiali, visione “dal margine”, come quella del ragazzo africano colpito da un sacchetto pieno di vomito mentre i ragazzi sono in viaggio verso il campo, o il confronto improvviso con un nemico fino a quel momento invisibile, durante uno degli attacchi sul bordo.
Hermanus è più interessato alla mutazione di un sentimento indicibile e al camuffamento dei segni d’amore nell’improvvisa esplosione d’odio, tanto dal lasciare al non detto quel contrasto tra alienazione e riconoscimento di Se, catturato nel gesto trattenuto e nella sospensione del senso durante l’esercizio brutale dello scontro fisico.
Il Jazzin’ minimale di Braam du Toit, sin dall’inizio cerca di cogliere questo dissidio, con una musica a metà tra groove e decostruzione espressionista. Scarna ed emozionale, accompagna la corsa iniziale di Nicholas (Kai Luke Brummer) verso l’oscurità e fuori dalla protezione famigliare, determinando la scansione dei primi minuti del film. Altre volte si sovrappone ai suoni, alle parole, a tutto il sistema aurale diegetico, quasi per aprire un altro ritmo dello sguardo.
Essere corpo e psiche illegali sembra racchiuso in quel pizzicato che allude al canone della fuga, tra vincolo e libertà, e che commenta i momenti più intensi del film, dove non si ricorre ad un utilizzo forse sin troppo analogico del commento musicale, come del resto accadeva nel cinema degli anni ottanta.
“Moffie” è un film ancora una volta “lanciato verso il vuoto”, come scrivevamo per “The Endless River”; quello spazio di contemplazione che scava nella coscienza collettiva di un paese, raccontando la deriva e l’abisso dei singoli.