giovedì, Novembre 21, 2024

Moi, maman, ma mère et moi di Christophe Le Masne – Les Arcs Film Festival 10: la recensione

I paesaggi della Loira e l’electro-rock analogico di Victor  Le Masne, già parte di quel fenomeno pop nazionale noto con il nome di Housse de Racket, fanno da cornice alla commedia intimista di Christophe Le Masne, esordio nel lungometraggio per l’attore francese attivo sin dagli anni novanta.

Grégory Montel è Benoît Mounier, incasinato uomo d’affari operativo nella terra d’Albione. Perderà il treno proprio il giorno della sepoltura di sua madre.

Su questo ritardo si basa il ritorno alla casa natale, dove vivono ancora il fratello e le due sorelle. La stanza di Benoît si trova nello stesso stato in cui l’aveva lasciata qualche lustro fa, con il letto incassato tra la parete e la libreria, sepolto dai manifesti dei concerti, i poster delle icone adolescenziali e tutte le tracce di un passato che avrebbe dovuto essere archiviato in soffitta. Lo scarto tra memoria e ricordo, due concetti apparentemente simili, ma afferenti a diverse sfere etiche e individuali, si allinea a questa contratta immagine del caos, dove il richiamare al cuore del ricordo collide con l’attività mnestica tout court.

Mentre Juliette (Olivia Côte) e Antoine (Philippe Rebbot) insistono con modalità del tutto surreali affinché il fratello metta in ordine la camera, Benoît rimane sospeso tra il rifiuto di quello spazio e il desiderio di non perdere il contatto con ogni singolo frammento che lo occupa. Le Masne costruisce una serie di gag motorie e verbali su quella che è una delle dimensioni più difficili da rappresentare, la relazione tra le occorrenze dell’età adulta e l’improvviso recupero dell’innocenza attraverso l’emersione delle tracce materiali.

Il punto di mezzo è una ricerca dell’interiorità che non risiede né da una parte né dall’altra e che definisce la persona come un aggregato di impressioni e caratteri tipici, raccolti in quell’unità che diventa archetipo dominante. Per Benoît è la madre, prima descritta da un lapsus come la perdita del tempo, poi rivista ossessivamente come apparizione fantasmatica a cui non si sia data degna sepoltura. 

Il quarantenne ansioso e sgangherato la vede tra le cose della camera e più raramente comparire alle spalle dei fratelli nella chiarezza fulgida del sogno. Un confronto con la morte, anche la propria, che consente a Benoît di scavare a fondo sul suo passato e sulla sua relazione con una donna libera di amare. I resti ormai opachi di quell’amore sono tutti nei gesti affettuosi di Jeff (Philippe Nahon),  tra consapevolezza e demenza senile. L’amante della madre diventa la pietra angolare di questo dissidio tra memoria e rimessa nel cuore, non solo per i sentimenti contrastanti che genera, ma per quella paternità acquisita che dimostra nei confronti di Juliette (Lolita Chammah), la sorella più giovane di Benoît sposata con suo figlio Sergi (Alex Moreu Garriga). 

Il paese sembra non avere altre caratteristiche se non la dimensione silvestre e bucolica del paesaggio e il ventre della casa d’infanzia ormai destinata all’oblio della vendita, una delle azioni più tipiche ed estreme attraverso le quali una famiglia sancisce definitivamente la morte del nucleo.  In una delle sequenze più divertenti, Antoine guida due potenziali acquirenti tra le stanze della casa, mentre Benoît non riesce a controllare il suo stato d’alterazione, intima e percettiva; l’unico spazio che li accoglie tutti, tra pavimenti da rifare, pareti parzialmente ri-dipinte e spazi smantellati,  diventa un luogo di passaggio tra assenza e ricordo.

La concentrazione di tutto il tempo è nello spazio angusto e privato di Benoît, una sospensione che Le Masne filma e accentua attraverso piccoli slittamenti dello sguardo, tra cui il continuo oscillare della camera verso le nuvole, i campi e i sentieri a perdita d’occhio e una concertazione musicale, a partire dai bei titoli di testa, che ha forse il piccolo limite di adattarsi in alcuni momenti alla confezione pop dell’ex Husse de Racket, dispositivo ritmico che in altri casi innesca efficacemente l’andamento della commedia e il deambulare dello stesso Grégory Montel.  “Moi, maman, ma mère et moi” è un piccolo film girato in digitale, ma con una sicurezza notevole; ha la freschezza delle opere acerbe, ma anche la capacità di concertare personaggi e sentimenti stratificati in uno spazio circoscritto, forse con la memoria rivolta all’ironica leggerezza di Éric Rohmer.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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