Primo film a colori di Jacques Tati, 1958, vincitore dell’Oscar come Miglior Film Straniero e del Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes, Mon oncle è uno sguardo critico sul mondo che non dimentica, però, di sorridere.
Tati è un incomparabile interprete dello spirito della commedia, il tono medio è la sua cifra e la grande maschera che ha creato, monsieur Hulot, si muove sulla scena da padrona. Impermeabile, ombrello, cappello e pipa, in tranquilla e leggera immersione nel reale instaura subito il rapporto comico con le cose, relegando ai margini l’espressione verbale.
Torna il sapore del muto e, come per Ozu, Chaplin e Lubitsch, “il tocco di Tati” si fa inconfondibile segno di stile.
Monsieur Hulot: il suo mondo ideale è quello del vecchio quartiere in cui abita, case scrostate e cani randagi che rovistano nella spazzatura, monelli che giocano per strada e robivecchi che trascina il suo carretto. Una banlieu dei tempi andati che oggi ha perso i connotati, ma che Tati conosceva bene e amava, dove “ la sera si posa con odor di bistecche nelle strade”, cantava Eliot, e il sapore dell’uomo non spariva travolto dalle candeggine profumate della modernità.
A torto giudicato passivo, rivolto nostalgicamente al passato e non adeguatamente rivoluzionario in un’epoca fatta di troppe parole, la potente carica eversiva della sua arte non fu allora capita, c’era bisogno di una prospettiva storica che è toccato al tempo fornire.
Oggi una doverosa rassegna lo riporta nelle sale con quattro dei sei lungometraggi girati in una carriera non coronata dal successo che avrebbe meritato. Lo scarso raccolto al botteghino di Playtime, il suo ultimo film, unito al costo per la realizzazione di una vera e propria città, “Tativille”, fecero fallire la sua casa di produzione e causarono l’abbandono del grande schermo.
Monsieur Hulot è dunque una riscoperta che il tempo ha conservato di intatta attualità per fornire il terzo millennio del suo eroe comico.
Individuo dotato di limpide capacità diagnostiche, ostinato fautore di una palingenesi che riporti il mondo dentro i cardini perduti, al pari degli illustri predecessori che hanno calcato le scene teatrali nella lunga storia della commedia a partire dall’Atene del V secolo, Tati tende a costruire un mondo nuovo, sede della felicità universale, imponendo all’immagine impietosa della realtà in cui vive un atto inventivo voluto con coerenza e lucida razionalità.
Obbedendo alla tecnica drammaturgica che gli è abituale, fa muovere passi in avanti al suo eroe in direzione del nuovo indicando il paradosso come via di salvezza che ponga così termine al vecchio stato delle cose.
Stando alla classificazione che Baudelaire fa sulla natura e le cause del comico, quella che meglio gli si addice è la qualifica di “comico significativo”, attitudine che “ … sorge in rapporto ad una situazione o ad un comportamento che vengono assunti come obiettivo di beffa e di derisione; esso ha carattere funzionale e tale funzione è riduttiva, ossia critica. Il comico “significativo” ha infatti lo scopo di rifondare una norma – etica, sociale o estetica in senso lato – che risulti sovvertita nell’oggetto della rappresentazione o più in genere nell’attualità.” (Dario Del Corno, Letteratura Greca, dall’età arcaica alla letteratura cristiana,1995)
Felicemente integro nella sua statura di essere umano portatore sano di geni non organicamente modificati, le scansioni utopiche del desiderio non gli appartengono. La realizzabilità del progetto è un prerequisito prioritario, l’obbligo di restare fedele ad una misura solidamente certificata come realistica lascia intravedere un mondo ideale che finisce per sembrare ben presto a portata di mano.
Il realismo-fantastico con cui il registro del comico gestisce sé stesso rende infatti pienamente credibile la progettualità dell’eroe.
Villa Arpel, feticcio mostruosamente asettico che troneggia al centro del film e scatena energia negativa e centrifuga all’intorno, è il regno del nulla verso cui il mondo si sta pericolosamente catapultando.
Hulot (Jacques Tati) e il giovane Gérard (Alain Bécourt) sono gli antagonisti in lotta perché ciò non avvenga e si affermi la possibilità di vivere da esseri umani che credono in una rigenerazione creativa del mondo.
“Tati non predica un ritorno al passato…” affermava correttamente Angelo Libertini (Cinema Sessanta, N. 140, 1981), il suo obiettivo è qui e ora, e la scelta stilistica, orientata ad un minimalismo perfettamente ponderato nel timbro, nella costruzione, nella varietà e nelle ripetizioni, lo sottrae a fughe in avanti dettate da enfasi ed anacronistici entusiasmi.
Quello che Tati vuol colpire è l’invisibile tela di ragno che avvolge sempre più strettamente il mondo, la reificazione dell’individuo reso schiavo dalle “cose” di cui ha riempito il suo territorio e che ora gli si chiudono addosso soffocandolo.
Tattica vincente è farsene coinvolgere in modo burattinesco, servirsi della carica dissacratoria della risata, del gesto che prevale sulla parola, di quella goffaggine che è la dominante della sua mimica.
Modernizzazione e sviluppo sono i feticci del contemporaneo, è nata la classe media dedita al consumo, nel ’58 in Italia un altro profeta, Pasolini, indicava la strada, ma nessuno la seguì.
La casa della famiglia Arpel è il simbolo di questo mondo alienato, privato cioè di un normale rapporto con gli oggetti
Hulot ha un cognato gran lavoratore, il signor Arpel (Jean-Pierre Zola), proprietario della Plastac, azienda che produce oggetti di plastica. Sua moglie (Adrienne Servantie) è la classica casalinga segnata da un rapporto ossessivo-compulsivo con gli oggetti. Far brillare i mobili di plastica costruiti dal marito e tenere la casa al top dell’ordine, svuotandola di vita, è la sua missione. Vittima sacrificale sarebbe il loro unico figlio, Gèrard, destinato a noia perenne, se non intervenisse zio Hulot, fratello della madre, che, tra gag alla Buster Keaton e pacata fissità alla Chance il giardiniere di un altrettanto magistrale Peter Sellers, introduce disordine e inaffidabilità nel regno del “tutto sotto controllo”. Case popolari, cani randagi, biciclette usa e getta, calorosa vita di strada nel quartiere dove sorge la sua abitazione fanno da contrappunto sonoro agli spazi levigati di Villa Arpel, scoprendone l’assurdo, il falso, la mistificazione.
Ma, attenzione, “ Tati non predica un ritorno al passato. È questo un punto sul quale è stato ampiamente frainteso. Tutte le sue preoccupazioni e la sua satira sono incentrate sul presente, perché è quello che richiede più il nostro impegno. L’antitesi che l’artista ha scelto per la sua denuncia della spersonalizzazione riguarda l’aspetto umano, i contatti umani, la libertà d’espressione che egli vede in pericolo nel passaggio, inevitabile, da un tipo di organizzazione sociale ad un altro. Tati propone una soluzione positiva che modifichi la vita del mondo moderno. Anni dopo la critica definirà questa posizione con nome di ecologista, ricerca di armonia tra l’uomo e l’ambiente.”. (Angelo Libertini, cit.)