Lionel Essrog “attorciglia, strappa, rimette insieme”. Billy, che – giocoforza affettuosamente – è la sua testa, avvolge i pensieri, sbrindella le parole, le ricuce in una tessitura sonora improvvisa e improvvisata, stramba ed eccentrica, schietta e geniale. Lionel Essrog, uscito vent’anni fa dalla penna di Jonatham Lethem, è un detective privato affetto da sindrome di Tourette che viene, con tutto il vigore letterario del personaggio, ad abitare un mondo specificamente cinematografico nella nuova fatica registica di Edward Norton, la prima infatti risale al 2000, con la commedia Keeping the faith/Tentazioni d’amore.
Anche interprete, sceneggiatore e produttore, Norton retrodata la Brooklyn senza madre degli anni Novanta fino ai chiaroscurali Cinquanta, quando, mentre New York cresce e insieme si stringe nell’ambigua morsa della gentrificazione, il cinema hollywoodiano collassa tra i margini di quella stessa presa, celebrando la fine di un’epoca d’oro fatta di luci e ombre, preparando a poco a poco, di conseguenza, il terreno per il modello produttivo e discorsivo del blockbuster.
Strappare e rimettere insieme: la storia dalla cornice, ricomposta entro un identico orizzonte americano di “ingiustizia e disperazione”. Strappare e rimettere insieme: i moduli stilistici di ieri e di oggi per ripercorrere in chiave nostalgica, non senza ironia, la parabola di un genere almeno classicamente poco – o per nulla – frequentato nel presente.
Motherless Brooklyn vive insomma di quelle atmosfere doppie e seducenti, di quegli incontenibili umori urbani tra l’ammorbante e l’attraente, di quelle emblematiche silhouette in controluce che tanta parte hanno avuto nella zona di incidenza del noir, ma ne riporta in superficie il fascino intramontato per mezzo di una regia ispirata che attraversa tanti, se non tutti, i riferimenti possibili.
Così le ripetute inquadrature dal basso, insieme all’ossessione per il dettaglio visivamente enfatizzata e narrativamente rimarcata, disegnano una traiettoria che va dall’iconicità di Welles al postmodernismo tarantiniano; l’utilizzo insistito di ralenti, teleobiettivi e jump cut dà al film, in virtù del tempo diegetico che lo ospita, un’inflessione di modernità che, da qui invece retrospettivamente, omaggia il primo cinema di Scorsese, di De Palma, degli altri “movie brats”.
Al centro, un “bad boy” atipico ma tipicamente solo che, dopo la morte violenta dell’unica persona che lo abbia mai compreso e amato, l’amico e mentore Frank “frankly franco” Minna, sarà costretto a scoprirsi tale, innescando una funambolica e tesa inchiesta che, volta ad individuare i responsabili dell’uccisione, lo porterà ben oltre quanto atteso: nel cuore delle contraddizioni sociopolitiche passeggiando attraverso i neo “slums” brooklyniani o accampandosi alla luce dei neon di Harlem, come pure dentro se stesso.
A scongiurare il rischio del calderone, per di più non poco ambizioso, il ruolo semanticamente pregnante del jazz che satura la colonna sonora. Composta da Daniel Pemberton, con un brano di Thom Yorke, è la misura pura di una schizofrenica, singolare forma interiore, sostiene e si alimenta della sensibile prova di un Norton che sa dirigere, ma è soprattutto un raffinato attore, coadiuvato qui da un cast che comprende Gugu Mbatha-Raw, Willem Dafoe, Bruce Willis e Alec Baldwin.