Uno scatto. E’ l’attimo in cui la luce si disegna sulla pellicola, è l’istante in cui il momentaneo diventa infinito, in cui uno sguardo o un’espressione anche fugace possono rivelare la vera natura, la personalità autentica, quella più intima. Nella foto resta impressa l’immagine che la prontezza del fotografo ha saputo cogliere, o forse quella che il pudore non è riuscito a frenare. Negli scatti di Antonio Pandolfi s’incontrano sguardi stanchi, trasognati, ironici, impauriti, gravi e lievi, diffidenti e fiduciosi, beffardi e beffati dall’irriverenza dell’obbiettivo. Sono sguardi che rivelano un’interiorità profonda, ma imprigionata in un corpo senza movimento, senza vita, inerte e appesantito, appeso a fili invisibili che l’acqua della doccia, le linee delle architetture o dei mobili ricostituiscono per un attimo e rendono visibili all’occhio del fotografo e, dunque, a noi. Non c’è esteriorità, non c’è finzione, non c’è supponenza in queste pose: c’è la rivelazione del sè più profondo, l’intimità squarciata dalla violenza sferzante dello scatto. I muscoli, le ossa, la carne diventano qui niente più che materia, esattamente come la plastica di cui sono fatte le bambole o il legno con cui sono costruiti i burattini, e relegano l’uomo all’inettitudine per la sua incapacità di esprimere attraverso il movimento l’immensità del proprio mondo interiore. E nel contrasto della pluralità degli sguardi con l’unicità dei movimenti, nella diversità che è oppressa, celata e soffocata dalla materia, si legge tutta quella sofferenza miseramente e profondamente umana.
Su uno sfondo indistinto bambole e pupi, privi di punti d’appoggio e noncuranti della terrena fisicità, si muovono convulsamente per cercare uno spazio da occupare, una posizione da prendere, una dimensione in cui tornare a essere. I loro occhi si allargano sull’oscurità fino a inghiottirla, le facce si contraggono in smorfie di rabbia, le braccia si tendono senza riuscire a stringere, il passo si affretta per correre verso una condizione accettabile, un posto reale. La luce, improvvisa come il flash di una macchina fotografica, li sorprende, li differenzia e mette a nudo, li strappa dalla condizione di esseri inanimati, abbandonati nell’oscurità dell’indistinto, e dà loro l’opportunità di muoversi, occupare il palco davanti ad un pubblico e impersonare un ruolo credibile.
Maurizio Bentivegna muove i suoi pupi su una scena disadorna e lascia che la luce disegni nel suo teatro un canovaccio composto di gesti: sono le braccia allargate per misurare lo spazio, le gambe lanciate a mimare la corsa, la bocca spalancata per gridare se stessi. Improvviso un brivido percorre quei pupazzi, l’affanno scuote quei corpi che non hanno più niente di inanimato ma vivono la commedia che inscenano. Così questi personaggi drammatici narrano una storia umana, la nostra storia, fatta di ritmo, movimenti e vesti sconvolte, nervi guizzanti e muscoli tesi a cercare un riscatto dalla propria condizione di replicanti, trovando lo spazio per comunicare se stessi, per affermare la propria identità, e in questa spietata bagarre senza senso, raccontare la vita.
Movimenti è: Pittura di Maurizio Bentivegna e Fotografia di Antonio Pandolfi.