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Mózes, il pesce e la colomba di Virág Zomborácz: il fantasma della morte

Film di esordio, premio per la sceneggiatura al Media European Talent prize a Cannes, vincitore al Bergamo Film Meeting 2015, Mózes, il pesce e la colomba dell’ungherese Virág Zomborácz mette in scena l’esistenza trasognata e irrisolta di Mòzes (Márton Kristóf) ventenne mite che un padre autoritario, pastore protestante del paese (László Gálffi) ha gioco fin troppo facile nel dominare, imponendogli modelli di vita e scelte indiscutibili.

Facilità solo apparente, in verità, perchè Mòzes è un singolare incrocio di arrendevolezza e imperturbabilità. Ascolta senza batter ciglio i discorsi del padre, non si ribella né mostra segni di rabbia repressa ai suoi diktat, lo segue docile dove lui lo trascina, ma sembra che nessuna delle vessazioni paterne sia tanto molesta da scalfire la sua placida flemma.

Inevitabile si accende in chi guarda la curiosità sul suo destino, condizionati da tanta letteratura sul tema avvertiamo imminente l’esplosione di uno scontro generazionale, spiamo le reazioni del ragazzo alla ricerca di segnali che indichino sofferenza, malumore, irritazione.
E invece nulla, Mozès va avanti filtrando, depurando, destrutturando e riportando le sue relazioni sociali ad una elementarità che non prevede affermazioni dell’io in rivolta, ma d’altro canto neppure la condizione di succube è quella che lo contraddistingue.

L’aspetto dominante della sua personalità è l’insicurezza, tratto tipico del figlio di un genitore castrante, ma nulla più. E’ invece ben visibile una vena ironica che affiora sottile, appena percettibile, nello sguardo, in un guizzo delle labbra, in qualche frase buttata qua e là come a caso.

E’ quel che vuole, e ottiene con amabile leggerezza e tocchi di geniale e surreale umorismo, Virág Zomborácz, che plasma l’intero film sulla sua figura acerba, dinoccolata e spesso impacciata, eppure capace di venir fuori alla grande da ogni impasse. Sembra quasi che sul suo capo si posi ogni volta una mano salvifica e provvidenziale, e là dove gli uomini si danno da fare a sconvolgere l’ordine naturale delle cose, Mòzes procede nella sua tranquilla e leggera immersione nel reale.

Nell’anonimo paesino della sterminata pianura ungherese Mòzes vive sotto l’ala del padre con una madre sottomessa e quasi afasica, una simil-sorella, in realtà figlia adottiva, timida e goffa, una zia grassa e bulimica in piena tempesta ormonale post-menopausa, che vorrebbe liberarsi di questi ingombranti nipoti per dedicarsi alla conquista del cappellano con l’aria da faccendiere più che da uomo di Dio.

La bionda e svitata Angèla, tossicodipendente in programma di recupero, e il neurologo della clinica dove Mòzes viene spedito a intervalli regolari per “riposare”, come dicono in famiglia, completano l’orizzonte vitale del ragazzo, fino al colpo di scena: la morte improvvisa del padre per infarto fulminante e la sua trasformazione in amletico fantasma alle calcagna del figlio.

Ora Mòzes ha uno scopo nella vita, liberarsi di questo fantasma, e sarà un susseguirsi di step tipici di un percorso di formazione che, inceppatosi nel reale, comincia a fluire libero nel surreale, là dove avverrà un miracolo impossibile prima: padre e figlio si capiranno. Una regia raffinata conduce con mano leggera, senza appesantimenti didascalici, il gioco metaforico, che è chiaro ma non scoperto, lascia godere del reale trascorrere della vicenda scegliendo l’umorismo come modalità di approccio all’ esistenza.

La fotografia, molto accurata, sottolinea sapientemente le scelte di regia, mentre ci inoltriamo nei territori del comico e della sua carica eversiva capace di creare una corretta relazione tra follia e redenzione.
Virág Zomborácz, con piglio divertito e ironico, costruisce una commedia amara e spigliata, rimette in piedi gli elementi primari che risultavano schiacciati, Mòzes (terra), la colomba che non voleva volare (aria) e il pesce fuor d’acqua che non voleva morire (acqua) e a tutti restituisce il loro habitat naturale.
E il fantasma?  ” Tutto a posto, i fantasmi non esistono li creiamo noi, siamo noi i fantasmi! ” diceva il grande Eduardo.

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