giovedì, Novembre 21, 2024

My Home, in Libya di Martina Melilli: la recensione

Il 71esimo Festival di Locarno ha accolto nella sezione Fuori Concorso My Home, in Libya, primo lungometraggio di Martina Melilli, giovane artista, anche e non solo filmmaker, che, a partire dagli studi intrapresi allo IUAV di Venezia e proseguiti alla Lucas School of Art di Brussels, ha messo insieme negli anni, coerente a se stessa prima di tutto, alla propria idea di cinema di conseguenza, una base estetica e tematica solida, su cui poggia e a cui naturalmente si lega questo nuovo lavoro, che ne è, per sua stessa natura formale e concettuale, maturazione in divenire, aperto a un futuro “storico” e biografico di (im)possibilità di vita ed espressione.

Già premiata nell’ambito di ArteVisione 2017 per il corto documentario “Mum, I’m sorry”, inchiesta sul fenomeno delle migrazioni per scelta parziale, zoomata sulle persone, o sugli oggetti che restano delle persone, così da restituire prospettive che sfuggono a un’ istituzionale visione d’insieme, Melilli porta avanti la propria personalissima poetica del frammento, fa collage di memorie, spazi, individui e linguaggi.
Non si dà distinzione tra il documentare e il fare arte se per cinema documentario si intende un percorso per immagini e suoni che non si inventi le storie, piuttosto i modi per raccontarle: è questo lo sguardo autoriale della regista veneta, adottato, dichiarato e riscontrabile nella prassi creativa.

My home, in Libya va ad arricchire il progetto più ampio che è Tripolitans, archivio multimediale, e non, di storie, quelle degli italiani nati e vissuti in Libia, poi costretti in seguito al colpo di stato di Gheddafi del 1969 a lasciare la città che chiamavano “casa”, Tripoli dorata ed edulcorata, per far ritorno alla a loro straniera Italia.

Un voice over che è marca distintiva della produzione, fin qui, della Melilli, elemento imprescindibile da cui traspare il bisogno di una narrazione urgente, vitale e lenitiva, riproduce un messaggio vocale: Martina, figlia di italo-libici strappati alle proprie radici ed educati a rimuovere un capitolo di storia nazionale vissuto sia come colpa che come onta, annota telegrafica le coordinate temporali e spaziali della propria vita costruita attorno ad un vuoto identitario da colmare attraverso un incessante lavoro di scavo negli archivi così come nelle coscienze, ricerca di documenti così come di parole che possano comporre il Senso.

Mentre i nonni riprocessano gradualmente i ricordi portando a galla soprusi indimenticati e una nostalgia via via più sofferta, quasi intollerabile, My home, in Libya riesce ad aprirsi ad una moltitudine di questioni attualissime senza mai slacciarsi dal particolare, anche personale, proposito di partenza.

Melilli osserva così le migrazioni di oggi con sguardo partecipe e illuminante, ma indiretto, non invadente né tantomeno retorico. Sono semmai i fatti a testimoniare una storia che si ripete la stessa alternando le variabili, i volti, sono le contingenze a cui la regista non si esime dal dare voce a raccontare quello che è stato e che è: Narcisa, la nonna, che parla degli italiani che la accusavano di rubar loro il lavoro, l’intercettazione di uno speaker radiofonico che ignora, e semplicisticamente giudica.

Ignora, per esempio, che a Tripoli c’è Mahmoud, contattato dall’artista tramite i social network, fondamentale anello di giunzione per la realizzazione del film data l’impossibilità di ottenere un visto per la Libia, ma fin da subito molto più di questo, “connesso” sulla stessa linea generazionale di Martina.
 Il nonno scarabocchia su un pezzo di carta i luoghi dei suoi anni d’oro, il giovane, mettendo anche a rischio la propria incolumità, li rintraccia e riprende per poi inviarli alla Melilli che ne fa un controcanto duro e respingente ai racconti della famiglia: Tripoli è cambiata come cambia una città ammorbata nelle viscere, le strade sono asettiche, l’aria asfittica. I cinema chiusi.

Le conversazioni tra Martina e Mahmoud appaiono in sovraimpressione, sostituiscono le voci ma ne veicolano le stesse necessità. Lontani, specchiano l’uno nell’altra le rispettive fami, identiche anche se mosse da istanze differenti, di vivere e conoscere. Lui che vuole partire ma non può, ingabbiato nella trappola di una guerra su cui non si riflettono obiettivi, lei che è sempre in fuga, consapevole di non appartenere a nessun luogo, eppure spinta in avanti dal desiderio di radicarsi da qualche parte, a qualcuno, fosse solo per rinunciarvi. Costante, inguaribile “Martina-gonia”.

Veronica Canalini
Veronica Canalini
Critica Cinematografica iscritta al SNCCI. Si anche classificata al secondo posto al concorso di critica cinematografica “Genere femminile: quando le donne criticano il cinema” indetto da Artemedia, oltre a scrivere di Cinema per Indie-eye, si è occupata di critica letteraria per il Corriere del Conero.

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