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My Old Lady di Israel Horovitz: la recensione

Capita a volte di chiedersi, mentre il film scorre, cos’è che non va e che continua a non andare fino all’ultimo fotogramma. La risposta, questa volta, è lui, Kevin Kline/Mathias, in formato sfigato quasi settantenne, spiegazzato e ipercinetico, che riempie lo schermo di mossette e battutine da sfiancare lo spettatore inerme. Considerato però l’alto tasso di gradimento che il film raccoglie all’uscita dal cinema, sembra che di spettatori inermi ce ne siano pochi. Ma tant’è, le minoranze continuano ad esistere. Allora andiamo con ordine e cerchiamo anche altri responsabili del disastro.

Il settantacinquenne drammaturgo statunitense Israel Horovitz (importante pedigree di uomo di teatro, sceneggiatore, tra l’altro, di Fragole e sangue) decide di sperimentare la regia cinematografica adattando questa sua opera teatrale. Il plot è notevole, la storia ha radici millenarie, le colpe dei padri che ricadono sui figli, l’odio/amore dei figli resi incapaci di vivere normalmente, turbe psichiche a non finire e vite distrutte. Sullo sfondo l’ombra della morte che aleggia con ghigno feroce.

Tutto bene se per buoni due terzi del film non avessimo l’impressione costante di essere di fronte ad una delle commedie peggiori di Woody Allen più che ad un dramma serrato, claustrofobico, ossessivo.
Quando la materia comincia a dipanarsi e a rivelare le sue oscure radici è tardi per diventare minimamente credibile, ed è qui che gli sforzi di cast e regista al completo rivelano la corda.
Da quel momento al clima da soft comedy subentra una fastidiosissima virata al sentimentale venato di punte horror (tale l’effetto, piuttosto che di umana pietà, prodotto dal racconto del suicidio della madre di Mathias).

Il tutto, poi, veleggia verso un finale ampiamente previsto, lì dove si ricompongono le aporie e la corda romantica, ampiamente tirata, rende ogni sviluppo possibile: perdono, risanamento di una situazione economica ampiamente compromessa, sesso e amore che tornano a fiorire esorcizzando i cattivi pensieri e le brutte abitudini come l’alcool. Sfuma perfino in una nuvoletta leggera il sospetto di incesto fra i due protagonisti, un flash fulmineo e tutto torna a posto, l’esame del DNA arriva con la velocità della luce, a onta di tutto quello che ci fanno credere sulle sue lungaggini quando si tratta di famose indagini di cronaca nera.

Per chiarire gli elementi essenziali di questa complicata storia diciamo che Mathias è un newyorchese sbarcato a Parigi in quanto erede di un antico palazzo, situato nientemeno nel Marais, lasciatogli dal padre (che immaginiamo morto ultracentenario vista l’età del figlio). Poco, anzi, nient’affatto consapevole della fortuna che gli è capitata (una casa al Marais!), da buon americano tenta di tradurre tutto in denaro. Del resto è povero in canna, chissà perché visto che proviene da agiata famiglia, e quei soldi gli farebbero comodo. Ma non può venderlo, il palazzo è vincolato da una di quelle pazzesche e geniali clausole che solo i legulei europei sono capaci di inventare. Si tratta del “viager”, in Italia “nuda proprietà”, vitalizio ipotecario per cui chi compra (per pochi soldi) scommette sulla morte degli anziani proprietari.

La casa, molto malmessa (un solo bagno dove, naturalmente, capita d’incontrarsi spesso con la gag che ne deriva), è abitata da Mathilda (una Maggie Smith al minimo sindacale) 92enne che sembra non aver alcuna intenzione di morire a breve, e dall’attempata figlia Chloé (Kristin Scott Thomas) perfetta nella parte della zitella, assolutamente poco credibile quando cede alla tentazione amorosa.
Pian piano scopriamo che non si tratta di sconosciuti e che dietro i due rampolli (Mathias e Chloè) c’è una lunghissima storia di corna, per dirla in breve, un intreccio famigliare a forti tinte che ha prodotto i risultati che vediamo.

Particolare abbastanza disgustoso, il padre di Chloè (sì, quello vero) per dimenticare si era dato alla caccia e così ogni stanza dell’avita magione rigurgita di teste di animali impagliati che il regista ama inquadrare ad ogni piè sospinto, forse a monito di non sappiamo cosa. Mentre l’intreccio s’infittisce e la vendita diventa sempre più un miraggio, il riflettore viene puntato sul profilo psichico dei tre protagonisti, con relative contorsioni. L’attempata signorina Chloè, chi l’avrebbe detto?, ha un amante, ma provvederà ben presto a licenziarlo con mossa inaspettata (e qui la sceneggiatura lascia ampio spazio al fai da te dello spettatore) con una motivazione che possiamo tradurre per comodità con : “La mia famiglia è stata distrutta dalle corna, ora che sto facendo io di diverso con la famiglia del mio amante?”.

Mathias continua ad aggirarsi per Parigi e per casa (aprendo la porta del bagno quando non deve) sempre più disorientato e sfigato, con la seguente frase stampata sul viso: “Dentro di me c’è un fanciullino che strozzerei volentieri”.

Mathilda, ormai completamente incartapecorita, tenta di minimizzare tutta la faccenda dicendo che non sapeva nulla del suicidio della moglie dell’amante, credeva fosse malata, oddio che dolore!
Il resto è storia nota e il finale potrebbe essere commentato da una cartina dei Baci Perugina. Lo spettatore inerme di cui sopra subisce inebetito anche questo, ma finalmente si accendono le luci in sala.

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