sabato, Novembre 2, 2024

Natale all’improvviso di Jessie Nelson: la recensione

Dopo un paio di melodrammi e qualche produzione Jessie Nelson torna dietro la macchina da presa a distanza di quattordici anni con un film scritto da Steven Rogers, più a suo agio con James Mangold e Chris Columbus e qui imprigionato in uno schema che vorrebbe allontanarsi dalla commedia romantica con quel cinismo posticcio legato alla tradizione dei natali disfunzionali, in seguito vanificato con il ripristino di un romanticismo corale altrettanto forzato.

Il giorno di Natale, Charlotte e Sam, i Coopers senior (Diane Keaton e John Goodman) organizzano una cena che dovrà riunire una famiglia disunita dal tempo e dagli eventi. Questo desiderio di unità si sovrappone alla crisi della coppia, intenzionata a divorziare e a render nota la decisione solo dopo le vacanze. Nelson segue quindi i momenti precedenti alla cena, dove quasi nessuno dei Coopers vuole realmente partecipare all’evento natalizio. C’è Emma (Marisa Tomei), sorella di Charlotte in continuo conflitto con lei; c’è Hank (Ed Helms), figlio neodivorziato della coppia con tre figli a carico, rispetto ai quali Nelson segue il breve racconto di formazione, soffermandosi sopratutto sui primi approcci di Charlie (Timothée Chalamet) con l’altro sesso.
C’è sopratutto Eleanor (Olivia Wilde), la più polemica e anaffettiva della famiglia. Prima del viaggio che la condurrà dai genitori incontrerà in un bar Joe (Jake Lacy), pronto ad arruolarsi nell’esercito e a cui chiederà di far da finto fidanzato per tenere a bada i giudizi della famiglia sulla sua vita privata. A far da collante il nonno Bucky (Alan Arkin), padre di Charlotte, anziano signore che dispensa buoni consigli e flirta con Ruby (Amanda Seyfried), giovane cameriera impiegata in un diner della città.

Su questo impianto corale Nelson e Rogers offrono diverse angolature sull’idea di famiglia, concertando le disfunzioni come elementi che possano condurre ad una funzione collettiva in grado di accogliere tutte le diversità in un abbraccio. Da una parte quindi il modello è quello del viaggio verso la famiglia come territorio alieno, ospitale e inospitale allo stesso tempo, sul modello del franchisee dedicato ai Fockers inaugurato da Jay Roach, tanto che il titolo originale del film, Love the Coopers, allude proprio a quella dimensione. Dall’altra c’è il tentativo di costruire una versione più accessibile dell’ipertrofia narrativa alla Wes Anderson, moltiplicando i personaggi e il loro punto di vista e affidandosi ad una voce fuori campo onniscente, che con un classico twist narrativo scopriremo appartenere ad un cane.

Quello che manca è l’approfondimento emozionale, non tanto attraverso il dialogo quanto per il modo in cui il ritmo stesso del gesto e lo spazio che questo occupa, si orienta a suggerire quello che Nelson non riesce realmente a mostrare. L’unica linea che sembra funzionare è quella che conduce Olivia Wilde e Jake Lacy ad un confronto giocoso e profondo sul loro modo di abitare un sentimento, tanto da sviluppare un piccolo film nel film, puntualmente neutralizzato dalle esigenze corali e da quei simbolismi forzati che con la commedia americana non c’entrano niente.

La stessa malinconia anti-natalizia sembra premere dai margini del film senza riuscire a plasmarlo o semplicemente a diventare parte di un sentimento vivo e non riconciliato, fuori dall’involucro narrativo convenzionale, progettato per funzionare entro certi confini, basta pensare all’incontro tra Marisa Tomei e il poliziotto di servizio che dovrebbe guidarla al comando di polizia; uno scambio tra due visioni impossibili della propria immagine in relazione allo sguardo degli altri, condotto sulla linea della forzatura, tanto da far diventare accessorio il fatto che l’uomo della legge sia gay, un contrasto voluto tra il suo ruolo e i propri desideri e concepito come un’esca, non certo come naturale sviluppo tra scrittura e sguardo.

La frammentazione diventa allora un alibi chiarissimo per evitare lo scontro anche aspro tra scrittura e punto di vista, funzione e libertà del gesto, proprio perché il passaggio da un personaggio all’altro è concepito come una sutura.
Siamo infatti lontanissimi dal cinismo dolente del Babbo bastardo di Terry Zwigoff; quella era una commedia che si liberava nel dramma e viceversa, questa non è nessuna delle due cose.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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