venerdì, Novembre 8, 2024

Nebraska di Alexander Payne : padre e figlio on the road nella vecchia provincia americana

Woody Grant (Bruce Dern) e David (Will Forte) sono padre e figlio in viaggio da Billings nel Montana, dove vivono, fino a Lincoln, nel Nebraska, cittadina 750 miglia e quattro States più in là, nel ventre di quella provincia americana dove pare esistano solo vecchie automobili e distributori di benzina, tendine di pizzo e bar con pessima birra (scenari alla Hopper, ma rigorosamente in bianco e nero).
Woody non si schioda dalla testa di aver vinto un milione di dollari in un concorso a premi di una rivista e vuole a tutti i costi andare a ritirarlo. Si tratta, evidentemente, di una di quelle trappole per casalinghe semi-alcoolizzate o demenze senili conclamate, fatte per venderti qualcosa tipo pentole o abbonamenti, ma convincere il vecchio è impossibile, caparbio di carattere, la vecchiaia ha fatto il resto. Si avvia dunque a piedi lungo la superstrada, non gli hanno rinnovato la patente e la vecchia moglie bisbetica, come il primogenito che lavora in televisione, non intendomo collaborare. Un poliziotto lo dovrà riportare a casa e così David, il secondogenito, uno scapolo quarantenne scialbo e stazzonato che vende elettrodomestici, dopo aver cercato di dissuaderlo, si rassegna ad accompagnarlo in macchina.
Il viaggio sarà la loro scoperta reciproca, di quelle che non c’è bisogno di proclamare a gran voce, bastano un gesto e uno sguardo.
C’era, in fondo in fondo, annebbiato dalla polvere del tempo, un legame che premeva per tornare a galla e scrollarsi di dosso anni di silenzi, incomprensioni, lontananza..
La vecchia moglie (June Squibb) e Ross (Stacy Keach), l’altro figlio, li raggiungeranno a metà strada per un meeting parentale con pezzi sparsi della famiglia allargata da antologia del cinema di genere. Tutti, professionisti e attori presi dalla strada, sono figure di spalla con ruoli perfettamente delineati ma secondari. Chi giganteggia è Woody, un Bruce Dern magnifico, premiato a Cannes 2013, così calato nella parte del vecchio da far dubitare che lo sia davvero, nella vita. Lo segue a ruota David, un Will Forte che dà a quel suo personaggio ingrato, fatto di mezze tinte e toni grigi, un rilievo umano spettacolare fino alla commozione.
Progetto low budget di quel cinema americano indipendente che nulla condivide con i fasti hollywoodiani, sa come mettere in scena storie di ordinaria normalità strappate alla vita di tutti i giorni, dando una forma propulsiva nuova, impaginando emozioni e immagini con forza inedita. Padre e figlio on the road scoprono quanto poco di casuale ci sia nella vita e quanto la trama consuetudinaria di vite parallele vissute insieme abbia costruito, nonostante tutto, un lessico famigliare laconico, brusco, minimale, ma che val la pena di recuperare nella sua autenticità, ora che un’occasione assurda eppure reale li sta rivelando a loro stessi. Girato in cinemascope e in bianco e nero, nei modi di un cinema originario lontano da logiche commerciali, è la misura che Payne ha voluto concedersi per questa storia, “modesta e austera” di uomini qualunque, che unisce in buon equilibrio commedia e dramma, fa sorridere, spesso, e commuove.
Attori professionisti e dilettanti si muovono con naturalezza, la musica diegetica del Tin Hat Trio mescola folk, blues e atmosfere alla Tom Waits, creando un sound smorzato che tinge di malinconia leggera quello che si potrebbe definire l’anti-sogno americano. E’ il ritmo degli scenari che Payne spalma lungo il tracciato di nastri stradali che sfilano dritti all’infinito, tra alberi ossuti, mucche nere al pascolo e fattorie tutte uguali, con fienili dove un tempo magari si annidavano serial killer, ora al massimo sono depositati vecchi compressori in disarmo.
Qualche rara automobile passa rispettando ossessivi limiti di velocità in spazi solitari dove si potrebbe sfrecciare a 200 all’ora, e nelle fantasmatiche cittadine che spuntano, rare, lungo il percorso, si respira una specie di cupio dissolvi dell’ultimo barlume di vita cosciente. Nucleo di interni casalinghi, arredati col pessimo gusto tipico dell’America post- pionieristica, è il televisore, Moloch che tutto divora dopo averlo prima cloroformizzato. Intorno all’apparecchio, schierata su poltrone e divani ad hoc, si raccoglie quanto resta della famiglia di Woody: un fratello quasi più vecchio di lui e del tutto rimbambito, una cognata ciarliera secca come una trave marcia e due nipoti, gemelli enormi dotati di un solo cervello in due.
Gente persa di vista da tempo immemorabile che riappare per un attimo lungo la strada e si fa fatica a trovar qualcosa da dirsi. Parte di questo campionario di varia umanità è raccolta nel bar: vecchi amici che lo riconoscono, altri che vogliono spillargli i soldi che ancora non ha, mentre riemergono frammenti di storie passate, pezzi di vita dimenticati e un giorno importanti.
Woody ha allontanato tutti dalla sua vita, ma ora la macchina lo tallona, ne registra gli sguardi rapidi, lo inquadra in semiconi di luce, sottolinea le brevissime battute. La vincita per lui è l’ultima cosa in cui credere, la conclusione dignitosa di una vita, un furgone nuovo da comprare e qualcosa da lasciare ai due figli.
Mentre seguiamo il breve sviluppo di questo viaggio che, più che nello spazio, si svolge nella mente, sentiamo come nostro questo Midwest in cui Payne ci porta perché è casa sua e sue, come di ognuno di noi, sono le problematiche, le piccole sconfitte e le grandi vittorie che riportiamo ogni giorno: “Il figlio vuole offrire al suo anziano padre un momento di dignità. Questa è una questione a cui penso spesso perché i miei genitori stanno invecchiando e vorrei che lo facessero con assoluta dignità. La vecchiaia ci può sminuire. Dobbiamo tenere duro“.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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