Il cinema Italiano, quando si fa generazionale, sembra incastrato nella rappresentazione di un’impasse; al posto della Storia come spazio tra memoria collettiva e memoria individuale ci sono delle figurine ritagliate; al posto dei nodi, dei rimandi e di una rete di esperienze in grado di raccontarci, c’è un racconto massimalista e innocuo che neutralizza la forza del gesto (spesso amplificandolo in forma simbolica) e che si appoggia ad una verbosità didascalica, quasi fosse un avviso a tutto schermo per indirizzare la lettura.
Sergio Castellitto si ispira ancora una volta ad un romanzo di Margaret Mazzantini per realizzare un ennesimo “film di famiglia” con l’intenzione di raccontare l’ereditarietà, spesso dolorosa, del rapporto tra genitori e figli, riducendo solo apparentemente gli eccessi di Venuto al mondo, ma di fatto replicandone la stessa superficie, capace di mettere un freno definitivo ad un film che al contrario, vorrebbe proporsi come un incessante corpo-a-corpo.
Mentre Riccardo Scamarcio e Jasmine Trinca si donano con forza spontanea leccandosi, scopandosi, insultandosi e cercando di tirar fuori vita, Castellitto lavora contro frapponendo gli ostacoli di un testo letterario che deve in tutti i modi far sentire il suo peso, non solo quando la parola salta fuori per suturare ma anche quando l’immagine diventa a sua volta un filtro opaco, impostato per sottolineare un concetto.
I denti malati di Dalia, l’anoressia, la respirazione bocca a bocca, Mike Tyson e l’Italia dei reality, questa volta osservata a margine rispetto al narcisismo Mucciniano , sono contenitori vuoti, tracce di vita vissuta altrove, incapaci di materializzare quel limen tra le nostre storie e la Storia.
A chi si rivolgono Castellitto e la Mazzantini? Ad una generazione a confronto con quella di cinquant’anni fa? La chiave del rispecchiamento è sin troppo chiara, non solo per la relazione conflittuale di Delia e Gaetano con i propri genitori, ma per la coppia di “spettatori” interpretata da Roberto Vecchioni e Angela Molina, la cui evanescenza onirica suggerisce, con adamantina certezza, una dialettica predeterminata ed esplicita che come tutti i paradigmi, emerge dallo sfondo di un brutto teatro.
Tutto il calvario di Delia nel suo rapporto con il cibo subisce lo stesso trattamento, manca qualsiasi riferimento che non sia semplicemente verbale, per potersi avvicinare al dolore della donna, tutto è incollato sullo sfondo, come le improvvise paranoie, i tentativi di tornare nel circolo vizioso del vomito; e del resto è del tutto assente il coraggio di realizzare un cinema immersivo, calato dentro le ossessioni come quello di Saverio Costanzo con il suo Hungry Hearts, film che aderisce ai corpi senza cadere nella trappola di doverci restituire a tutti i costi un “ambizioso” ritratto generazionale.
C’è un altro fattore, disturbante, che accomuna il cinema di Castellitto a quello di altri autori italiani, ed è la dimensione familistica che in modo endogeno, ricalca il sistema produttivo, politico, sociale e personale di un paese rispetto al quale vorrebbe distinguersi con la pantomima dell’indignazione, la stessa con cui il “partito” di Repubblica ci ha allevati per decenni; in questo senso, “Nessuno si salva da solo” sembra quasi alludere non tanto al ridimensionamento di una diffusa deriva individualista, quanto all’impossibilità di uscire da una mortifera dinamica consociativa, dalla famiglia dritta al cuore della Storia italiana.