È mai capitato a una ragazza di essere costretta a fare del sesso contro la sua volontà? E se sì, le è successo una o più volte? Le è successo di essere maltrattata dal suo partner? Mai, di rado, a volte o sempre?
Partendo da queste e altre domande simili, la regista e sceneggiatrice newyorkese Eliza Hittman (It Felt Like Love, 2013; Beach Rats, 2017) sviluppa la drammaturgia del suo nuovo film Never Rarely Sometimes Always, presentato in prima mondiale al Sundance Film Festival 2020, dove ha vinto il U.S. Dramatic Special Jury Award: Neo-Realism ed in concorso per l’Orso d’Oro alla 70a Berlinale.
Il film si apre con uno spettacolino musicale presentato sul palco di una scuola di provincia. Sembra di essere nel bel mezzo degli anni sessanta: a un Elvis Presley in paillettes segue un trio di ragazzi in pullover color pastello che cantano a cappella delle loro pene d’amore. Infine, in scena ecco una ragazza: si accompagna con la chitarra proponendo una sua interpretazione del brano dei The Exciters: “He’s Got The Power” (The Exciters, 1963. Autori del brano: Ellie Greenwich / Tony Powers). Nell’imbarazzo generale canta con voce incerta:
He makes me do things I don’t want to do
He makes me say things I don’t want to say
& even though I want to break away
I can’t (stop saying I adore him
I can’t stop doing things for him)
He’s got the power, the power of love over me.
Un coetaneo dal pubblico le grida contro: “puttana”. I presenti ridono, lei smette di cantare, per un istante sembra voglia lasciarsi alle spalle tutto, poi però riprende, determinata a concludere la sua performance nonostante tutti.
Il nome della ragazza è Autumn (Sidney Flanigan). È una diciassettenne come tante: frequenta la high school in una cittadina del Pennsylvania e dopo la scuola lavora con la cugina Skylar (Talia Ryder) come cassiera in un supermercato; vive in una famiglia del ceto medio e viene confrontata quotidianamente con svariate forme di micro-violenza tipiche di una società maschilista e misogina, a lei ostile tanto nella sfera familiare quanto in quelle scolastica e lavorativa.
Il rapporto col padre (Ryan Eggold) è costellato di incomprensioni e aggressioni verbali; la madre (Sharon Van Etten, cantautrice statunitense), ha altre due figlie e, pur cercando di difendere Autumn, accetta remissivamente gli atteggiamenti sessisti e discriminatori del marito. Entrambi nella sceneggiatura non hanno un nome. I maschi coetanei sono immaturi e aggressivi, quelli adulti sono allusivi e sempre pronti a interpretare qualsivoglia forma di cortesia in chiave sessuale, il datore di lavoro molesta sistematicamente le sue dipendenti.
Quando Autumn scopre di essere incinta, forse di un coetaneo, forse del padre, per lei non c’è altra decisione da prendere che quella di abortire, e questo nonostante il consultorio locale cerchi di persuadere la ragazza del contrario. Unico problema è la legge del Pennsylvania, che richiede per le minorenni il consenso dei genitori. Autumn non vuole che nessuno sappia della sua gravidanza e così, a insaputa della famiglia, parte con la cugina Skylar alla volta di New York, dove potrà abortire.
Il film accompagna le due ragazze nel loro viaggio evitando toni da melodramma e avvalendosi di una fotografia (Hélène Louvart, già direttrice della fotografia, per film di Claire Denis, Agnes Varda e Wim Wenders, oltre che di Lazzaro felice e Corpo Celeste, di Alice Rohrwacher) che si concentra sui loro volti, quasi cercando in essi tracce di quei pensieri ed emozioni che i dialoghi brevi e succinti non lasciano trapelare.
Come anche testimonia la presenza di due importanti rappresentanti della scena musicale femminile statunitense, Julia Holter in qualità di autrice della colonna sonora e Sharon Van Etten nel ruolo di attrice, quella di Autumn non è una storia isolata. Come ha spiegato la regista e sceneggiatrice Eliza Hittman durante la conferenza stampa di presentazione del film alla Berlinale, sono tantissime le ragazze che ogni anno si recano a New York per poter abortire. Diversi stati degli USA hanno infatti adottato regolamenti restrittivi come la consulenza obbligatoria, il cosiddetto periodo di riflessione, rigidi regolamenti per le cliniche o il consenso dei genitori per i minori, per limitare la portata della sentenza della Corte Suprema “Roe contro Wade” (1973), che consente di abortire fino a quando il bambino non è in grado di vivere autonomamente, ovvero, in base all’interpretazione attuale, fino al 24o mese di gravidanza.
Rispondendo a una domanda riguardo a quanto Never Rarely Sometimes Always si ispiri all’attuale situazione politico-sociale negli USA, Hittman ha chiarito che il progetto iniziale di questo film risale al 2013. “Durante l’amministrazione Obama, tuttavia, non c’era interesse. Si riteneva che stessimo vivendo un periodo di grandi progressi sociali e che la tematica affrontata dal film non fosse più rilevante. Grazie a Trump”, ha aggiunto sarcasticamente la regista, “il copione è ritornato di attualità.”