Sensibile, fragile, anticonvenzionale. Tre parole ripetute allo sfinimento, appiccicose, sdolcinate e poco convincenti che escono dalla bocca di tutti quei personaggi che interrogati sulla musica e la vita di un artista scomparso prematuramente non fanno altro che reiterare quella convenzione per cui certe figure di culto vengono riprese di quando in quando, lasciandoli irrimediabilmente martorizzati e codificati senza mai provare a superare quel cliché che li vede consumati dal loro tragico contesto.
Nick Drake – Songs in a Conversation sarebbe potuto essere un documentario interessante, avrebbe potuto sfruttare le conoscenze e le capacità dei due protagonisti, Roberto Angiolini e Rodrigo d’Erasmo, per evitare di romanticizzare una vita condannata e seguire un canovaccio sconnesso e bizzarro. Le canzoni di Nick Drake non hanno bisogno di quella tragedia per trasmettere tristezza, isolamento, confusione e meraviglia.
Nick Drake non è mai stato un personaggio pubblico, si sa poco di lui ma ogni dettaglio della sua vita è stato comunque analizzato e per quanto irrilevante è diventato il mezzo per dare significato a un’intera esistenza.
Roberto Angiolini e Rodrigo d’Erasmo hanno un progetto, a quarantacinque anni dalla scomparsa del cantautore inglese, vogliono ripercorrere le sue orme e durante il viaggio si fermano a chiacchierare con diversi artisti del panorama italiano, Manuel Agnelli, Niccolò Fabi, Andrea Appino, con ognuno recitano lo stesso soggetto, poche parole e l’esecuzione della canzone che ha cambiato il loro modo di ascoltare e concepire la musica.
Se le diverse esecuzioni non sono sotto accusa, a demoralizzare lo spettatore è la regia e la scelta dell’ambientazione, tutte le esibizioni sono collocate in paesaggi che appaiono come nature morte, senza che mai l’umanità invada l’inquadratura con qualcuno che dimostri che l’unico contesto possibile non sia quello agreste e bucolico.
Se Nick Drake è sempre sfuggito agli schemi, alla feroce volontà di tutti noi di dover incasellare, classificare una persona in modo rigido e arbitrario, allora perché non seguire una strada diversa, decontestualizzarlo da quell’ambiente in cui siamo abituati a inserirlo, come cimiteri e cripte invece che luoghi affollati, parchi giochi in grado proprio per paradosso di restituire con maggiore forza il suo paesaggio interiore?
Forse le insolite accordature di Pink Moon si sarebbero risolte nei modi più inaspettati. A queste condizioni sarebbe stato più interessante, più introspettivo e meno costoso un podcast che lasciasse ognuno di noi libero dai condizionamenti visivi.