In una delle sue rarissime apparizioni televisive datata 1972 e concessa alla francese Pop2, Nico esegue “You forget to Answer”, cupissima reverie funebre in memoria di Jim Morrison e brano centrale di “The End”, l’album dell’artista tedesca che sarà pubblicato due anni dopo con l’aiuto di John Cale, produttore di tutte le sue prime uscite soliste, Brian Eno e Phil Manzanera. La desolazione presente nella performance live viene accentuata dallo sfondo sonoro ottenuto dalle chitarre “infinite” di Manzanera e dal lavoro di Eno realizzato con “The Putney”, il sintetizzatore modulare di piccole dimensioni creato dalla EMS con il codice VCS3.
A metà tra organico e analogico, il “vento” che emerge minaccioso da tutti i brani di “The End” diventa l’elemento portante di You Forget to answer, tanto da duellare con la voce della Paffgen in una lotta disturbante contro la dissoluzione e il vuoto lasciato dalla morte: When I remember what to say / When I remember what to say / You will know me again / And you forget to answer.
Quella stessa qualità sonora viene incessantemente cercata da Susanna Nicchiarelli e dalla sua Nico (Trine Dyrholm) nel racconto di un’ossessione, quella per i suoni che emergono dall’abisso. Munita di un Nagra portatile, Christa punta il microfono verso le onde del mare, registra i suoni prodotti dallo scarico della vasca da bagno, cerca l’inascoltato tra natura e rumore bianco.
L’altra dimensione sonora, quella affidata agli arrangiamenti di Gatto ciliegia contro il grande freddo, sembra congelata un attimo prima rispetto al ripiegamento mistico e intimista di cui parlavamo, le scelte della Nicchiarelli non sono evidentemente (e coscientemente) imprigionate nello stolido rispetto filologico ed evocano l’atmosfera algida dei due ultimi album dell’artista tedesca, in particolare Camera Obscura, tagliandone completamente fuori i riferimenti e cercandoli in quella contemplazione del vuoto attraverso il tempo, nel vento del mare, nell’immagine di Nico, sola, con il suo registratore.
Il dramma dell’esilio è centrale in “Nico, 1988”, più della componente nazionalista, elemento sottile nel film della Nicchiarelli, ma conosciutissimo quasi quanto il saluto romano di Bowie a Victoria Station, per la scarsa propensione teorica del giornalismo musicale, poco interessato al dissidio di anime apolidi. Centrale perché contro i climax delle biografie, la Nicchiarelli ha la sensibilità necessaria per opporre un movimento nomade al suo film, dove le azioni sono quasi sempre interrotte, lasciate in sospeso, fermate nella loro dimensione potenziale. Nico fugge da un concerto all’altro, tra performance negate e allestimenti sul limite, mentre frammenti del passato e della sua vita privata collidono con un’immagine che è prodotta dalla percezione esterna del mito. Suoni e visioni si confondono, dalle fiamme che bruciano Berlino all’orizzonte, fino alla fuga notturna dal concerto di Praga; l’occhio non ha requie e nella dimensione frontale dell’immagine, confonde il tempo, lo sovrappone, cercando in quella bicicletta che attraversa l’ultima porta, il senso di una risposta dimenticata.