“Proverò a vivere la vita come una di quelle persone che, come noi, capisce come si vive. Nessuno ci darà fastidio, finché qualcosa ci darà fastidio. E’ la verità, succede sempre così. E’ come se qualcosa mi entrasse dentro, se qualcuno mi respirasse addosso.”
Tom è giovane, è bella. Tom disprezza il corpo che abita, vuole sbiadire fino a morire per non averne più percezione. Tom è una ragazza.
Neil è un ragazzo, gli occhi popolati dai fantasmi di un mondo che non è quello reale, la testa piena di sgangherati sogni da musicista in fuga.
Ram Nehari non fa che offrire loro, genuini, la circostanza di collidere, per poi registrare il folgorante incontro di due solitudini tanto diverse e tanto ugualmente disperate da non lasciare scampo, se non quello fugace ma indelebile di poter respirare l’uno nell’altra, e viceversa, senza avvertire di essere schiacciati.
Non dimenticarmi è l’esordio del regista israeliano che ha sbancato tutto all’ultimo festival torinese e che arriva al cinema con Lab80.
Le premesse non lo suggerirebbero, ma si ride anche, e per fortuna – che’ suscitare compassione nello spettatore è cosa facile, disturbarlo cinicamente richiede ben altro carisma.
Per anni Nehari ha curato progetti cinematografici realizzati da persone con problemi di salute mentale, l’ironia è un lusso che può concedersi senza risultare un macchiettista della prima ora, espediente per restituire un quadro fondatamente drammatico senza incappare nel pietismo.
C’è clinicamente ragione che Tom passi le sue giornate in un istituto per disturbi alimentari e che Neil sia ricoverato a intermittenza in un altro psichiatrico, ma attorno a loro tutto è repellente, nessuno – men che meno chi più degli altri dovrebbe avere gli strumenti per farlo – si dimostra in grado, o anche solo interessato a concedere comprensione prima di correggere il tiro. Quando lui, tuba in spalla, durante uno dei suoi (si immaginano frequenti) vagabondaggi al seguito di improbabili amici, o alle ombre di quelli, capita fatalmente nel cortile di lei, non può che innescarsi il riconoscimento di due alienazioni complementari: Tom che cerca di attrarre a sé le attenzioni senza essere mai assecondata, Neil che maschera il bisogno di sentirsi importante per qualcuno con il desiderio ostinato di entrare in una band.
E anche un duo allora va bene, persino oltre le aspettative se ci si trova a innamorarsi.
Sono goffi, sfacciati, improbabili marito e moglie dopo del sesso sbrigativo che però è un po’ meno terribile di tutte le altre volte, sa di promessa, e con qualche accorgimento nemmeno ingrassa: essere folli insieme oltre l’ipocrisia e i paradossi di una schizofrenia repressa. Proprio nella stanza accanto, non per niente, una ragazza bulimica parla della sua malattia di fronte a una modella in visita che, spaventata dall’evidenza di essere con tutta probabilità affetta da una nevrosi gemella, la disdegna.
Nehari li getta fuori dal microcosmo, nella notte di Tel Aviv, e li accompagna in quella che vorrebbe dirsi un’ascesa ma che si protrae a oltranza nella diagnosi di quanto a loro incompatibile sia il mescolarsi con vite fatte di psicosi socialmente accettabili, e finisce per infrangersi nella consapevolezza del dover fare i conti con le proprie aberranti esclusività.
Che il futuro sia dietro l’angolo o solo l’ennesima allucinazione, alla fine poco importa: non c’è rischio di “guarire”, in nessun caso.