“E’ veramente possibile crescere dei bambini, al giorno d’oggi, moralmente, intellettualmente?”.
Cairo, 2011, l’appartamento asettico di un poliziotto corrotto fino al collo, una voce dal televisore che recita così.
Tarik Saleh, svedese di origini egiziane, dirige Omicidio al Cairo, coraggioso thriller dalle implicazioni politiche, ostacolato in Egitto, dove la produzione si è vista negare i permessi per le riprese, girato dunque a Casablanca con il faro di Fellini a guidare il regista: se non c’è Rimini più autentica di quella di Amarcord, interamente ricreata in studio, quel che conta nel ritrarre una città è saperne cogliere nel profondo l’anima.
L’onestà, per quanto le brutture della verità spaventino, è stato il motore del film; la finzione del racconto, comunque ricalcato sull’omicidio della cantante libanese Suzanne Tamim, in cui furono coinvolti uomini d’affari e politici, trova sempre corrispondenza nella realtà.
Alla vigilia della Primavera Araba, il Cairo sanguina, infetta alle radici, purulenta e mefitica sino ad ogni livello sociale e urbano.
Noredin, agente “esemplare” della categoria che rappresenta, si trova a capo dell’indagine sulla morte di Lalena, la cui voce, assieme agli umori della città, si fa colonna sonora, instaura, post mortem, un dialogo con la coscienza del protagonista, che, alla stregua dei più memorabili drivers della New Hollywood, si muove alla deriva per le strade del Cairo, perso da principio, per brevi illuminazioni ritrovato, soltanto per finire ancorato più a fondo. To live and die, vivere e morire, in una spirale continua che si ripropone sugli schermi come in ogni metropoli.
Fares Fares, divenuto noto con il brillante Jalla! Jalla!, ora diviso tra produzioni indipendenti (dello stesso Saleh il Metropia del 2009 e, del 2011, l’onirico videoclip di I follow rivers, girato per e con Lykke Li) e blockbusters (Safe House, Rogue One della saga Star Wars), veste i panni di Noredin in modo totalizzante, si riappropria della capacità di prestare il volto a personaggi problematici, compromessi, sempre in bilico sul filo del rasoio, la reinventa sulla base del calco di un Hackman o Pacino qualsiasi.
Il corpo della cantante giace martoriato in una stanza d’albergo, intorno c’è chi osserva morbosamente incuriosito, chi svuota il portafogli della vittima, chi pensa bene di farsi portare la colazione in camera. Quando il caso viene in modo platealmente assurdo archiviato come suicidio, in una stazione di polizia in cui la massima preoccupazione dei vertici è che “la Tunisia è ridotta una merda ma comunque ci batte a calcio”, Noredin tentenna, estraniato dal sistema di cui fa parte quel poco che basta per accorgersi del marcio che lo contamina, e decide di portare avanti le indagini.
Ma la redenzione non è contemplata, non per chi le macchie di quell’apparato le conserva dentro.
La macchina del thriller tende con costanza e lacerante lentezza i fili del racconto, ma il motivo per cui Omicidio al Cairo morde allo stomaco è un altro: l’inchiesta di secondo livello cui il regista sottopone un paese ammorbato dall’interno, l’obiettivo sulle ombre di una rivoluzione che ha cambiato tutto perché tutto restasse come prima.
Cupo, torbido, il film slancia il suo antieroe in una improvvisata, disperata fuga finale, proprio mentre in città la polizia riceve l’ordine di sparare sulla folla. E’ un movimento centripeto che lo riconduce verso le viscere dell’unico centro possibile, laddove nessuno è esente da colpe, mai esclusivamente solo vittima o solo carnefice.