Di quel tocco “leggero” che si respirava nella prima stagione di The Man From U.N.C.L.E, rimane ben poco nella versione cinematografica diretta da Guy Ritchie. Benedetta da Ian Fleming e realizzata in parte pensando all’Hitchcock di Intrigo Internazionale, la serie sviluppata da Sam Rolfe tra il ’64 e il ’68, interpretata da Robert Vaughn e David McCallum forse non è la pietra angolare giusta per parlare del lavoro tutto in superficie del regista di Hatfield, perché il contesto è quello più recente di Kingsman – Secret Service, o dell’imminente Spectre di Sam Mendes; ri-semantizzazioni di un immaginario vintage alla luce di un post-moderno di retroguardia, che frulla un po’ di cose tutte insieme senza imboccare alcuna direzione, se non quella di levigare al massimo un immaginario super cool completamente artefatto, e forse presente nell’advertising automotive degli ultimi anni, più che nel cinema a cui Ritchie vorrebbe riferirsi.
The Man From U.N.C.L.E si serve di un gusto per gli innesti addirittura inferiore a quello di Matthew Vaughn, puntando ad una relazione ritmica tra immagine e colonna sonora stucchevolissima, basta pensare all’inseguimento che occupa i primi minuti del film, con le Trabant affiancate in un testa coda danzante, estetica del balletto che non prova neanche a giocare con i corpi e lo spazio, truccando in vari modi le carte con un montaggio truffaldino e improvvisi cambiamenti di tono.
Della stessa natura è lo split screen multiplo che recupera un immaginario specifico e vastissimo ma rispetto al quale Ritchie non è interessato a lavorare sul punto di vista o sull’incastro visuale alla Thomas Crown Affair, al contrario si gioca tutta la sequenza a casaccio, costruendo il ritmo sui bordi della cornice, spostandoli come una slide show e non curandosi affatto dell’azione e del rapporto tra immagini. Questo amore per l’effetto carino e fine a se stesso compare molte volte nel film, dallo scrolling delle diapositive che il KGB mostra all’agente Illya Kuryakin (Armie Hammer) per istruirlo sulla missione, movimento esteso a tutta la morfologia dell’inquadratura, fino all’intervento di ibridazione tra live action e CGI che per quanto impercettibile, riesce a raffreddare quasi tutte le sequenze più fisiche.
Persino le digressioni sulle quali Ritchie punta moltissimo, come il salvataggio di Illya operato da Napoleon Solo (Henry Cavill) a bordo di un camion inabissato, mentre la radio suona Che Vuole Questa Musica Stasera di Peppino Gagliardi, è una dilatazione forzatissima che nell’improvvisa astrazione omoerotica, ci aiuta a capire quanto il regista inglese abbia bisogno di questi trucchetti dall’apparenza bizzarra per raccontarci qualcosa sui suoi personaggi.
Stesso effetto quando lo zio Rudi (Sylvester Groth) sfoglia un album di ricordi orrorifici al povero Napoleon assicurato su un’inventiva sedia elettrica, evocando gli esperimenti nazisti più oscuri; una commistione tra grottesco e perturbante, violenza e commedia che è bene lasciare nelle mani di Tarantino; autore che tiriamo in ballo non a caso, proprio perché il cinema di Ritchie è da sempre affetto da un’indifendibile ansia imitativa, che si accontenta di utilizzare gli aspetti più superficiali di una semantica, al contrario, vitalmente combinatoria.
E a questo proposito, non occorre ribadire quanto i Basterds di Ritchie, il primo ex scassinatore e l’altro psicopatico con un tragico passato, siano superfici opache sagomate sulle peggiori convenzioni e incapaci di comunicare qualsiasi cosa con il corpo, i gesti e le azioni più concitate; imperdonabile in un film del genere, basta pensare a quanto riesce a raccontare senza alcuna scorciatoia psicologica, la tensione ipertrofica e la furia performativa di Charlize Theron nel nuovo Mad Max di Miller, ma siamo ovviamente su un pianeta diverso.
Ecco allora il groove rileccatissimo di Daniel Pemberton a far da collante ad una tracklist che passa in rassegna Roberta Flack, Nina Simone, lo Stelvio Cipriani di “Viaggio nella prateria” e il Morricone de “Il colpo”, nel tentativo di pasticciare con i generi, dalla serie Bond fino a Italian Secret Service di Luigi Comencini o agli 077 di Sergio Grieco e Vittorio Sala oltre che agli agenti nostrani diretti da Alberto De Martino, Sergio Sollima, Umberto Lenzi.
Tutto ingessato, decorativo e senza vita come uno scadente Swimsuit Issue più che un verace Man’s Adventure Magazine; basta solo pensare che nella sequenza potenzialmente più interessante, ovvero il corpo a corpo tra Armie Hammer e Alicia Vikander, l’amplesso dura solo alcuni istanti, perché Ritchie preferisce distogliere lo sguardo e ridurre lo scontro ad una burletta fuori campo, più per incapacità che per senso della commedia.