«Era amore?» «No, no, era Soren Kierkegaard». Così il padre di famiglia Morten Borgen spiega al pastore la follia di suo figlio Johannes che crede di essere Gesù Cristo. Ma il Socrate danese, che scriveva in piedi davanti alla scrivania e aveva l’abitudine di farsi notare durante gli intervalli degli spettacoli teatrali mentre invece era stato tutto il tempo a casa a ragionare, è sicuramente nei pensieri del regista Carl Theodor Dreyer. Entrambi, Kierkegaard e Dreyer cercano di immaginare cosa fosse accaduto nella mente di Abramo. Le continue domande, l’angoscia profonda e la paura di disubbidire alle leggi morali tormentano il padre durante quel viaggio di tre giorni per arrivare sulla cima della montagna dove il figlio Isacco, pronto a essere sacrificato, è salvato.
Questo episodio della Genesi non riguarda solo la fede in Dio, ma il salto nel buio che viene richiesto e compiuto contravvenendo a ciò che comunemente è ritenuto giusto.
Ordet, il penultimo film del maestro danese, è austero, realista, è pura esperienza. Non c’è spettacolo. Al centro della storia una famiglia di agricoltori, la loro tenuta nello Jutland per un breve ma devastante periodo di tempo. La maggior parte del dramma si svolge nel salotto, permeato da una luce grigia, l’anziano patriarca – interpretato da Henrik Malberg – e i suoi tre figli lottano rispettivamente con l’agnosticismo, la malattia della moglie incinta, il desiderio di sposare una ragazza che proviene da una famiglia cristiano fondamentalista e la follia. Dreyer ci suggerisce che l’oscurità e la luce coesistano in questa casa.
Johannes è malato? È un eretico? È un profeta? È Cristo incarnato?
Dreyer non fornisce risposte, lascia che ognuna di queste possibilità possa essere contemporaneamente. Borbottando per la casa, seguito dal ronzio della cinepresa Johannes assomiglia a un paziente psichiatrico.
Quando per la prima volta si trova di fronte al pastore, questa creatura sembra assolutamente terrificante, lo sguardo dell’uomo di chiesa diventa cieco come quello dell’inquisitore nel tribunale di fronte a Giovanna d’Arco. Ma quando in una mattina ventosa il giovane abbandona la casa per affacciarsi da un alto promontorio erboso, Dreyer lo inquadra dal basso, lo sfondo celeste, le nuvole passeggere gli conferiscono in quel singolo frammento l’autorità di Elia.
Il conflitto tra Morten e il potenziale suocero sottolinea l’assurdità delle divisioni dottrinali, il pastore che offre un’omelia che è pura banalità, sottolinea i dubbi di Mikkel che di fronte alla moglie morta resta in piedi pietrificato. Quando Johannes entra nella stanza e si avvicina al feretro, sembra posare dolcemente del sale sulla ferita del fratello, specialmente quando domanda apertamente perché nessuno di loro abbia chiesto a Dio di restituirgli Inger. Morten lo accusa di blasfemia, Mikkel singhiozza esasperato dalla rabbia. Ma Johannes è serio. Inger, la moglie incinta di Mikkel, è il personaggio principale nella visione di Dreyer. È colei che sa guarire e provocare il cambiamento in tutti gli uomini della sua famiglia, è l’incarnazione del cristiano ideale, il centro di gravità da cui tutti i personaggi sono attratti. Inger sa bilanciare magnificamente le pulsioni carnali e trascendentali, dentro di sé è alimentata da una fede pura. Nella struttura del film se Johannes rappresenta colui che è estraniato dai coinvolgimenti sociali, Morten e Mikkel rappresentano chi è ben calato nella realtà e ha perso il contatto con la fede e i propri ideali spirituali. Inger e sua figlia Maren sono l’unico punto di incontro possibile tra Dio e gli uomini.
Le sue mani si disgiungono, i suoi occhi si aprono lentamente, Inger si risveglia nel raso arruffato della sua bara, sboccia come un fiore, bacia intensamente Mikke che la stringe a sé. Un incredibile atto di grazia.
La resurrezione sostituita alla crocifissione, la resurrezione come rinascita del corpo con tutti i suoi bisogni e le sue voglie, l’incarnazione dello spirito e del corpo. Non c’è alcuna differenza tra l’amore sacro e l’amore profano.
La cinepresa con i suoi leggeri movimenti ondeggianti, lascia che il film stesso respiri, si espanda e si contragga, lasciando i personaggi fuori dalla visuale, camminando avanti e indietro. Ordet celebra la vita e Dreyer accompagna la cinepresa come se il film fosse egli stesso un essere vivente che suda, incespica nella speranza di trovare risposte.
Ordet, capolavoro del 1955, sarà presentato nella sezione Berlinale Classics, alla 69ma edizione del Berlin International Film Festival, per la prima volta restaurato digitalmente.