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Ouija di Stiles White: la recensione

Dopo G.I.Joe e i Transformers, uno dei prodotti Hasbro più longevi è al centro di una produzione cinematografica, ma a differenza della geniale saga ideata da Michael Bay, il noto gioco dell’occulto con cui Linda Blair si intratteneva insieme a Captain Howdy ne L’Esorcista di Friedkin da vita ad uno degli horror meno riusciti tra quelli prodotti dalla fucina della Blumhouse. Regolato da un’asfittica drammaturgia seriale, segue le regoline di quel tipo di slasher senza sangue che non spaventa più, forse in linea con le origini ludiche del prodotto.

Intendiamoci, il debutto di Stiles White dietro la macchina da presa segue in un certo senso le tracce di quello spavento modellato sul meccanismo “peek-a-boo” e riguardo al quale la Blumhouse conserva un’ossessione nostalgica, forse nel tentativo di rilanciare l’interesse per un genere senza fare i conti con lo scambio tra società e horror che ha consentito lo sviluppo di alcune stagioni cinematografiche tra le più importanti. La Blumhouse, tranne rare eccezioni (Scott Derrickson, già fuori dalla scuderia e Le streghe di Salem di Zombie) e al di là di un artigianato mediamente di buona fattura, sembra destinata a confinare le istanze più sperimentali e oltraggiose del genere in una confezione tanto nostalgica quanto innocua.

In questo senso, Ouija è un tiepidissimo “horror per famiglie” e nonostante l’esperienza di White come sceneggiatore, nuovamente insieme alla sodale Juliet Snowden anche per la sua prima regia, non decolla mai, ad eccezione di un breve studio sul rapporto tra fonti di luce e buio, che sembra l’unica preoccupazione estetica della coppia di autori, ma che rimane sullo sfondo, come un abbozzo visionario che avrebbe potuto dare altri frutti.

Se lo spazio scenico viene continuamente riconfigurato, rivisto e aperto ad un’osservazione sempre diversa della profondità di campo, grazie all’attenzione che White/Snowden pongono nei confronti delle fonti di luce e delle interferenze elettriche, basta pensare a come muore Debbie all’inizio del film, impiccata ad un cavo elettrico natalizio, tempestato di lampadine accese, tutto rimane appunto a quel livello decorativo, finendo per assomigliare al percorso di un luna park, dove la morte è un meccanismo che compie il suo giro obbligato nella giostra delle attrazioni.

La scomparsa di Debbie innesca una quest il cui scopo è interrogare la defunta sulle motivazioni del suo supposto suicidio; una cara amica insieme ai suoi compagni di studi, la sorella e il fidanzato, cercano di comunicare con lo spirito della ragazza attraverso l’evocazione di un mondo invisibile, per mezzo del pannello di gioco. Ouija aprirà la porta ad una serie di entità maligne che si materializzeranno tra il buio e le fonti di luce, facendo fuori ad uno ad uno tutti gli ospiti della casa.

Se lo scopo per realizzare Ouija era quello di sfruttare le ampie possibilità del product placement per rilanciare le vendite del gioco, la semplicità diretta del racconto consiglia al contrario di sbarazzarsene se qualcuno dovesse malauguratamente trovarlo in cantina, e se si esclude Lin Shaye, sempre e comunque perfetta e a suo agio nei panni della vecchia pazza e squilibrata, il film rimane inerte, non riserva alcuna sorpresa nè quell’effetto shock dello spauracchio che salta fuori da una scatola; piatto e regolato dalla banalità più spinta, riserva qualche sbadiglio di troppo.

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